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Avoledo vince il Premio Scerbanenco: Stokar, un eroe suo malgrado

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Tullio Avoledo ha vinto il Premio Scerbanenco 2020, con il suo ultimo romanzo Nero come la notte. Sebbene le sue storie sfuggano di solito a qualsiasi tentativo di incasellarle in un genere (e questo da sempre, da quando cioè nel 2003 è uscito per Sironi L’elenco telefonico di Atlantide), questa è sicuramente anche un noir.

Perché ne riprende registri e sfumature, ma al tempo stesso li reinventa in uno scenario immaginario, specchio di quel Nordest che diventa metafora del nostro presente. Distopia.

Il protagonista è Sergio Stokar, un ex poliziotto che ha pestato i piedi alle persone sbagliate ed è stato ritrovato, mezzo morto, davanti alle Zattere, un complesso di edifici dove vive una comunità di immigrati e in cui anche Stokar troverà rifugio, diventandone una specie di guardiano. Uno sceriffo. Questa è la premessa. Nel senso che siamo partiti da qui, ma poi come avviene in tutte le conversazioni piacevoli abbiamo parlato anche d’altro. Di musica, ovviamente, di noir e di fantascienza, di sabbia, ma anche di tecnologia, di ebook, di videogiochi, di un certo snobismo intellettualoide e, non poteva essere altrimenti, di progetti.

Ok, iniziamo.

Stokar è un uomo che vive in bilico tra due mondi, e questo è forse uno dei suoi talenti più importanti. È un eroe noir, nel senso che non è un buono di per sé, ma le sue azioni hanno un valore positivo. Come in certi western crepuscolari, nel suo modo di interpretare il ruolo dello sceriffo c’è una rude coerenza di fondo, la sua idea di giustizia. Ci racconti come è nato questo personaggio?

Sergio ha in sé il genoma di ogni personaggio, storico come letterario, che affronti la sua battaglia senza pensare alle conseguenze, rischiando anche la vita in nome di ciò in cui crede. Per questo può avere nel suo interiore e confuso pantheon di eroi i polacchi che caricano a cavallo i tank germanici, ma anche i francesi della divisione SS Charlemagne che hanno difeso Berlino durante l’assalto finale sovietico.

Nero come la notte e il suo protagonista sono nati dalla lettura di un articolo su un complesso residenziale abbandonato alla periferia di Porto Recanati nelle Marche, occupato da extracomunitari e studiato anche dai sociologi, e da un libro sull’assedio di Dien-Bien-Phu. Mi aveva colpito, in quest’ultimo, il racconto di un ufficiale francese che si fece dimettere dall’ospedale militare, malgrado le sue ferite non fossero guarite, e si lanciò col paracadute sulla guarnigione assediata dai Vietcong. E non fu l’unico. Per quegli ufficiali il senso del dovere e dell’onore erano più importanti della vita. Nessuno al giorno d’oggi sembrava più capire che cosa fosse l’eroismo. L’abbiamo riscoperto solo durante la pandemia, quando abbiamo chiamato eroi i medici e gli infermieri, rispolverando termini bellici a volte francamente impropri come “in trincea” e “in prima linea”. Ma quando ho scritto Nero come la notte tutto questo era ancora di là da venire. Sergio Stokar è un uomo imperfetto, disilluso, ferito dalla vita, a volte insopportabile, ma che ha il senso del dovere e un grande orgoglio. E’ un eroe suo malgrado, un eroe della testardaggine e del rifiuto di arrendersi, qualità secondo me indispensabili per uscire dal vicolo cieco in cui la nostra società si è infilata. Nero come la notte è un Pilgrim’s Progress, la storia di un’anima non vile che risale dalle tenebre alla luce.

Ritroveremo Stokar in un’altra storia? 

Durante la settimana passata tra l’annuncio dei cinque finalisti al Premio Scerbanenco e la proclamazione del vincitore ho interrotto la scrittura, da poco iniziata, di un nuovo romanzo con Stokar protagonista e mi sono detto “Se Sergio vince gli devo almeno un altro libro”. Ce l’ha fatta, quindi sì, vivrà una nuova avventura, contro dei cattivi che odio anche personalmente, così che sarà un piacere farli passare per le mani non esattamente morbide del mio personaggio.

Questo è forse il tuo romanzo più “nero” (non solo nel titolo). Questo perché la tua visione del mondo è cambiata, sei diventato più pessimista?

Ma no. Infatti “Sergio Stokar 2” (uso questa denominazione perché ho già un bel titolo ma me lo tengo stretto…) sarà molto più solare. Abbiamo bisogno di uscire dall’idea che il futuro sia solo sofferenza e grigiore. Non è così. Torneremo a vivere, e purtroppo ci dimenticheremo subito le lezioni che credevamo di aver appreso. Ma la vita è così, la Storia va avanti così da sempre. Vedo emergere energie nuove, non necessariamente solo tra i giovani, una nuova idea del rapporto tra l’uomo e l’ambiente, e anche un ritorno possibile alla politica declinata in termini di responsabilità e serietà. E soprattutto di rappresentanza. Dobbiamo smontare l’attuale sistema di potere e riprenderci la democrazia dal basso. Abbiamo l’energia e l’intelligenza per farlo. I nostri giovani sono la generazione più preparata culturalmente, e che ha in mano gli strumenti per cambiare il mondo. Il filosofo francese Michel Serres, che ebbi il piacere di incontrare a un premio letterario qui in Friuli, il Premio Nonino, diceva che un ragazzo di oggi ha nelle mani, con il suo smartphone, l’accesso a una conoscenza che nessun sovrano della storia ha mai avuto, una bacchetta magica in grado di rovesciare i destini del mondo. E’ solo questione di tempo. Pete Seeger, un cantautore americano di protesta, nelle sue memorie scrisse due cose che mi hanno colpito. Il primo aneddoto riguardava un giovane quacchero che da solo, a Times Square, manifestava portando un cartello contro la guerra nel Vietnam. Gli si avvicinò un anziano e gli chiese, “Ragazzo, ma davvero pensi di poter cambiare il mondo, tu da solo, con un cartello?” E il ragazzo gli rispose, “Molto probabilmente no, signore. Ma sono qui per rassicurarmi che il mondo non ha cambiato me”.

E la seconda cosa che vorrei citare è la risposta che Seeger diede alla domanda se davvero, con una sua canzone, avesse contribuito a fermare la guerra del Vietnam. Rispose che lo sforzo di un singolo non può fare miracoli. Ma disse anche, più o meno: immaginate un’altalena. Da una parte c’è un cesto di pietre, pesantissimo, che la tiene abbassata da un lato. Dall’altra parte c’è un secchio pieno a metà di sabbia. Ognuno che passa versa con un cucchiaino un po’ di sabbia in quel secchio. Apparentemente non cambia nulla. Ma un bel giorno, whoop!, vedrete l’altalena scattare verso l’alto, e le pietre volare via. Per via di tutti qui minuscoli, insignificanti cucchiaini di sabbia.

E’ per questo che ogni giorno della mia vita cerco di mettere almeno un altro cucchiaino di sabbia in quel secchio. Ed è per questo che, nonostante tutto, mi sento ottimista. O quantomeno, come  mi ha definito Giulio Mozzi, un pessimista che ci prova.

Pista Prima è la città di un Nordest distopico, post industriale. Una visione letteraria oppure un futuro che è dietro l’angolo?

E’ la mia percezione del Nordest, un mondo in cui ricchezze sempre più grandi e spesso ingiustificabili cozzano con l’impoverimento di strati sempre più ampi della popolazione. Viviamo in una situazione prerivoluzionaria, il cui esito non è facile da prevedere.

Le Zattere sono un complesso di edifici abbandonati dove si sono insediate comunità di irregolari. È un luogo chiuso, di emarginazione, ma al tempo stesso ha trovato proprio in questa chiusura un suo equilibrio. È un luogo di fantasia, ma rappresenta in pieno quanto sta avvenendo in certe periferie e in certi quartieri. Un contesto in cui Stokar si trova a dover rivedere molti di quei pregiudizi che porta con sé, perché all’interno di questo mondo si sono sviluppate dinamiche virtuose, solidali. Ma è pur sempre un mondo chiuso, non credi quindi che sia anche il risultato del fallimento di una diversa idea di integrazione, che si basa invece sul concetto di apertura?

L’integrazione e la multiculturalità sono temi troppo ampi e profondi per me. Una delle cose che mi sono ripromesso è di non parlare di argomenti che non conosco a fondo. Quello che posso dire è che non credo nel valore assoluto dell’assimilazione. E’ sbagliato voler ridurre tutti a un unico modello culturale o comportamentale, soprattutto quando il modello che ci viene proposto è quello del consumismo e della delega della politica nelle mani di gruppi d’interesse pilotati dalle grandi compagnie economiche. Ben venga, per me, la diversità, il senso di appartenenza a una comunità più ristretta di quella statale, la moltitudine delle lingue e delle religioni.  All’interno di un sistema di regole ben definite va comunque consentita la diversità e il diritto a non uniformarsi a ciò che viene percepito o imposto come “comune”, o “normale”. Un poeta friulano, Federico Tavan, scrisse “Non avete ragione. Siete maggioranza.”

Al di là delle teorie o delle fandonie sugli scontri di civiltà o ideologici, l’unico conflitto reale in atto almeno dalla prima crisi petrolifera del 1973 è a mio avviso quello per il controllo delle risorse: cibo, energia, materie prime, manodopera a basso prezzo. E’ una realtà molto simile a quella descritta in 1984 di George Orwell, un libro che dovrebbe essere una lettura scolastica obbligatoria. I supposti conflitti ideologici, culturali o religiosi sono solo mezzi di distrazione di massa. Le piccole comunità autosufficienti e quanto più possibile off-the-grid sono la mia speranza per il futuro. Se riuscirò a diventare vecchio vorrei passare i miei ultimi anni in una comune. Perché no?, magari anche alle Zattere.

Da frequentatore dei social, quanto sono diffusi quei pregiudizi espressi da Stokar? Credi che il web sia uno specchio fedele della realtà? 

Non è lo specchio della realtà. E’ il contrario. E’ la realtà che si modella al web, ormai. E il web è controllato da stregoni della manipolazione; anzi, da apprendisti stregoni, che non hanno idea dei danni che possono fare. La realtà s’impone nel momento in cui spengo lo smartphone e mi guardo intorno, e parlo davvero con qualcuno. Le nostre paure, anche degli altrui, nascono dal pregiudizio e dall’ignoranza: due caratteristiche negative che spopolano sul web, e si moltiplicano come virus o batteri su una capsula di Petri.

Il noir è considerato oggi il genere che più di ogni altro riesce a raccontare la nostra società. Forse perché ne esplora i lati più in ombra. Ma di sicuro anche perché grandi autori hanno utilizzato questo genere per raccontare le loro storie e fare letteratura. Anche una certa fantascienza, che è sempre stata una tua grande passione, ha questo aspetto di rappresentazione della società, anche se in questo caso passa attraverso uno specchio distorto, una visione di futuro. Eppure, nonostante classici come Asimov, Orwell, Bradbury, Huxley, questo genere, e più in generale il fantastico, è stato sempre trattato con maggior diffidenza, almeno dalle nostre parti. Che spiegazione ti sei dato?

La diffidenza non è certo quella dei lettori, che premiano sempre più il noir e la fantascienza. Pensiamo solo alla distopia, un settore di nicchia della fantascienza, che oggi è diventato un genere popolare. E’ semmai la diffidenza di un’élite di critici e di salottieri con la puzza sotto il naso, che s’incensano e si premiano l’un l’altro nei salotti letterari o nei loro equivalenti cartacei, quegli inserti o pagine “culturali” autoreferenziali che perdono sempre più credibilità. C’è una minoranza elitaria, in questo paese, che domina la comunicazione culturale ufficiale e diffida dei romanzi che piacciono al grande pubblico. Al tempo stesso gli scrittori che ne fanno parte ambiscono alle grandi tirature, che possono però raggiungere solo usando i meccanismi che in teoria disprezzano: le comparsate televisive, gli scambi di favori fra recensori, i grandi e costosi battage pubblicitari. Mio padre però diceva sempre che il tempo è galantuomo. Così resto seduto sulla riva del fiume, con una scorta di popcorn e di freccette, e aspetto di vedere cosa passerà sulla sua corrente.

Si può dire che un genere letterario non è altro che una chiave di lettura della realtà?

Ma sì. Oggi, poi, la realtà è più inquietante di un noir o di tante distopie. Quindi si presta più che mai ad essere interpretata dagli scrittori “di genere”.

Marsilio ha ripubblicato il tuo romanzo Lo stato dell’unione (detto tra noi, io ho ancora l’edizione Sironi). Quando è uscito, anche questo romanzo era ambientato in un futuro distopico connotato da aspetti come (cito dalla sinossi) il ruolo invasivo di internet, il dilagare delle fake news, il consenso politico costruito attraverso i sondaggi e la manipolazione di massa, il ritorno in auge del nazismo in Europa. Fino alla strepitosa rappresentazione della Festa dell’identità celtica. Possiamo considerarlo ancora futuro?

Sì, beh, ancora per un po’ sì: il peggio che avevo previsto in quel libro deve ancora concretizzarsi del tutto. Quando parlavamo dell’imminente riedizione, qualcuno in casa editrice ha osservato che il romanzo poteva essere lasciato così com’era, senza modifiche, perché era la realtà ad essersi adeguata a quello che avevo scritto più di quindici anni fa…

La fantascienza e la tecnologia sono suggestioni forti nelle tue storie, eppure è forte anche il legame che hai con cose molto antiche, come la musica sacra e la tradizione degli haiku, che a volte componi utilizzando Twitter. Quindi è possibile superare una visione conflittuale tra tradizione e tecnologia? Parlare, per esempio, anche di editoria digitale senza barricate tra sniffatori di carta e apologeti del bit? Pensare a un sistema che integri queste forme diverse e tragga beneficio dal considerarle complementari?

Assolutamente sì. Pur non essendo un amante del digitale, sono affascinato dalle sue potenzialità, che ancora non vengono sfruttate. Nessuno di noi, spero, si sognerebbe di usare uno smartphone per piantare un chiodo. Eppure gli editori fanno qualcosa di simile pensando a un ebook come a una trascrizione digitale di un insieme rilegato di pagine di carta. E’ una visione estremamente riduttiva. Il primo libro digitale che ho letto era Jurassic Park di Michael Crichton. Era un vero e proprio libro interattivo, con link che una volta aperti ti facevano vedere com’era fatto un certo dinosauro, o ti dicevano tutto sul Cretaceo…

Gli ebook odierni non sfruttano nessuno dei veri vantaggi competitivi che avrebbero rispetto ai loro fratelli di carta. L’editoria digitale poteva essere la più grande innovazione dai tempi di Gutenberg, o almeno dei tascabili economici, e invece…

La solita mancanza di fantasia dei manager e dei presunti addetti ai lavori. Se chiedessero ai lettori cosa chiedono a un ebook, avrebbero grosse sorprese. E sfrutterebbero meglio questa invenzione dalle potenzialità assurde.

Un’altra cosa va detta: in un mondo in cui le persone sono sempre più spinte a muoversi, a cambiare casa e nazione, portarsi dietro la propria biblioteca digitalizzata sarebbe fantastico. Ma sarà possibile solo quando l’acquisto di una copia cartacea ti darà diritto anche a una copia digitale, o quando gli ebook costeranno davvero poco. I prezzi attuali sono assurdi, se si pensa ai ridottissimi costi di produzione. Vogliamo scommettere che se gli ebook costassero, per dire, 99 centesimi, le vendite del cartaceo non calerebbero significativamente, ma quelle dei libri digitali schizzerebbero alle stelle, consentendo agli editori e agli autori di non rimetterci? La pirateria la potresti combattere efficacemente riducendo il valore di ciò che si può contraffare, e quindi il margine di profitto dei malviventi.

Qualche anno fa hai scritto su Wired Se i sapienti di Letteratura, chiusi e isolati nelle loro altissime torri, avessero menti più aperte e occhi meno miopi, vedrebbero che Videogame e Cinema e Fumetto fanno parte del loro stesso continente. Quei sapienti usciranno mai dalle torri?

Quando crolleranno. Usciranno all’ultimo momento e si troveranno subito altre torri…

Al mondo dei videogiochi sono legati diversi tuoi romanzi, vuoi parlarci di questo rapporto? Stai giocando a qualcosa?

Ero un giocatore accanito… L’universo di Fallout e quello di Metro 2033 erano affascinanti. E non disdegnavo i combattimenti di Call of Duty, finché la necessità di potenziare costantemente l’hardware del PC non mi ha indotto a desistere. Sul mio smartphone ci sono attualmente solo Rebel Inc., un gestionale in cui devi amministrare e possibilmente far evolvere un paese tipo l’Afghanistan, e Risk, il Risiko tradizionale, insomma, che puoi giocare online. Poi il Go, un gioco da tavolo tradizionale giapponese, un gioco di Star Wars che un giorno o l’altro disinstallerò perché sta diventando noioso e ripetitivo, e Call of Duty Modern Warfare, che ancora per un po’ forse riuscirà ad appassionarmi. Ma non sono più i videogame del passato, almeno per me. Sono più che altro un passatempo e un modo innocuo per sfogare l’aggressività. So che in giro ci sono molti nuovi giochi interessanti, ma per me non è più il tempo. Stop.

Nei tuoi romanzi sono spesso citati altri libri, come fossero porte pronte per essere varcate e aprire al lettore altri percorsi. Anche la musica ha questa doppia funzione, nel senso che accompagna le tue storie come una colonna sonora e suggerisce, allo stesso tempo, altre rotte. È come scrive Umberto Eco ne Il nome della rosa, i libri parlano di altri libri e parlano tra loro?

Non a caso uno dei miei autori preferiti è Borges. Mi sono sempre piaciuti i libri che ti rimandano ad altri libri. Letture che soddisfano, ma che ti creano anche altre curiosità. Ci sono letture che si chiudono in un piacere momentaneo, effimero, e letture che invece sono il primo felice appuntamento con un amore duraturo: quello per la lettura. Quanto alla musica, è il mio grande amore. Dico spesso che se Dio dovesse chiedermi un motivo per non annientare la razza umana, gli risponderei: Ehi, signore, la musica! Soprattutto la voce umana, il canto, ha il potere di toccarmi il cuore, di farmi volare oltre l’umano. E’ un’esperienza che, con tutti i limiti della parola, cerco di condividere con i miei lettori, così come cerco di inserire nella narrazione quello che nei videogame si chiamano Easter Eggs: delle piccole sorprese che alcuni lettori – solitamente non tanti – possono trovare fra le pagine dei miei romanzi.

Tornando al noir, quando ti hanno detto che avevi vinto lo Scerbanenco qual è stata la prima cosa che hai fatto? 

Sono sceso a dirlo a mia moglie, che avevo tenuto sveglia per due notti rigirandomi insonne nel letto. Poi sono tornato nelle grigie lande dello smart working.

Prossima uscita?

Entro fine dell’anno prossimo uscirà un nuovo noir che ho scritto per Marsilio, con un protagonista molto diverso da Sergio Stokar, che comunque avrà un’altra occasione di uscire, prima o poi. Spero prima. I tempi dell’editoria si stanno allungando troppo per i miei gusti, e forse anche per quelli dei miei lettori. Ho anche già pronto un nuovo romanzo sugli universi paralleli e i viaggi nel tempo, che piacerà anche ai lettori di fumetti. Spaziare fra i generi è una cosa del tutto naturale, per me. Non ho mai capito perché bisognerebbe chiudersi in un genere. È come se a un pittore venisse proibito di ritrarre certi soggetti, o di usare una certa tecnica. Non vedo proprio il perché.

 

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