Chissà perché, quando mi immagino raccontare la mia esperienza di scrittrice mi vedo come quegli attori che nei film americani si presentano durante le riunioni degli alcolisti anonimi: «Sono Giulia Beyman e da dieci anni sono un’autrice indipendente.» (E… no. Non so se smetterò.) Comunque sia, il prossimo dicembre festeggerò una decade dalla pubblicazione in self-publishing del primo libro della serie Nora Cooper, e dico subito che in tutto questo tempo non mi sono pentita.
Non ho mai fatto di questa scelta una bandiera, perché penso che sia argomento da addetti ai lavori e che ai lettori il “come” sia prodotto un libro in fondo non importi molto. A loro (a noi) interessa una buona (meglio se ottima) storia, capace di produrre quella sensazione di “impaesamento” che fa dimenticare qualsiasi altra cosa che non sia tra le righe stampate.
Noi lettori siamo contenti quando una storia è scritta bene, impaginata da non sfidare la nostra pazienza, senza quei fastidiosi refusi che un po’ di orticaria ce la fanno sempre venire. Noi lettori amiamo la promessa nascosta dietro una bella copertina, un titolo suggestivo, o una sinossi accattivante.
Come scrittrice considero ormai la strada del self-publishing piuttosto scontata, una delle possibili che un autore può intraprendere. Però ogni tanto mi rendo conto che questa chiarezza forse è solo un film che mi sono fatta nella testa. Che per molti questo fenomeno è ancora una specie di alieno, che tanti non sanno nemmeno che esiste. Che diversi pregiudizi sono ancora radicati.
Molti, per esempio, continuano a confondere il self-publishing con l’editoria a pagamento, che invece anche gli autori indipendenti definiscono “vanity press”. Il self-publisher non si auto pubblica perché vuole vedere a tutti i costi il suo nome su una copertina. Non spende soldi per un libro che forse non raggiungerà mai dei lettori veri, che non siano zii, amici o parenti.
Il self-publishing – che lo si consideri o meno la scelta giusta per la propria carriera di scrittori – chiede di investire tempo, lavoro, passione e pazienza per un libro che saranno sempre i lettori a giudicare. E di metterci la faccia.
È uno strumento (dal mio punto di vista, una grande rivoluzione per chi fa questo lavoro) che si può decidere o meno di utilizzare. Che può essere affiancato alla pubblicazione tradizionale. Che può essere usato bene o male. Ma rimane comunque un’opportunità.
Come autore indipendente (self publisher) scegli una strada piuttosto solitaria e ti fai carico di una serie di responsabilità. Scrivi una storia, e cerchi di fare in modo che sia la migliore storia possibile (e fin qui niente di originale). Ma poi devi anche trovare un editor, seguire la realizzazione della copertina, fare impaginare il tuo libro (a meno di non possedere un programma “magico”, ma di questo parleremo magari un’altra volta), scrivere una sinossi che racconti bene cosa c’è nel romanzo, preoccuparti che in qualche modo si sappia che il tuo libro esiste.
È normale che i lettori si fidino di più delle proposte di una grande o media casa editrice. Ha senso. Un autore indipendente ha da offrire come garanzia solo quello che ha scritto, e il suo nome (se i primi romanzi vanno bene). Il self-publishing regala libertà, autonomia, possibilità di impegnarsi per dare un futuro al libro a cui si è dato vita e che si ama. Regala anche, quando le cose cominciano a funzionare, una percentuale più alta di royalties, pagate ogni singolo mese (non nascondiamocelo).
Come tutte le scelte, anche questa ha i suoi contro. Non puoi considerare il tuo lavoro esaurito quando scrivi la parola “fine” sull’ultima pagina e avresti solo voglia di festeggiare. Dopo tutto quello di cui ho già parlato sopra, bisogna anche pensare a cose per le quali un autore non fa quasi mai i salti di gioia. Strategia dei prezzi. Immagine sui social. Promozione. Pubblicità… (Ma a essere sinceri, anche nell’editoria tradizionale questi ultimi aspetti sono sempre di più affidati all’autore.)
Altri “contro”? Forse negli ultimi tempi succede di meno (o forse riesco meglio a tenermi fuori dalle polemiche), ma del self publisher fin dall’inizio si è sempre detto un po’ di tutto. Che ha vita facile con i prezzi bassi (quante polemiche sui primi ebook a 0,99 euro!), che ha il suo giro di lettori compiacenti e conniventi, che si pubblica le recensioni da solo… Tranne che mangia i bambini in tanti anni ne ho sentite di ogni genere.
Sono in grado di garantire che ogni self publisher prenda sul serio questa strada? No. Non posso farlo. So quello che scelgo io, ogni giorno. So che alla lunga le scorciatoie e le piccole strategie non portano lontano. Non basta lo sprint dei cento metri. Servono la perseveranza e qualche volta l’ostinazione del maratoneta.
È una strada che va bene per tutti? Non lo so. Ci sono scrittori per i quali l’editoria tradizionale è perfetta. Ci sono ambiti – vedi la distribuzione dei libri cartacei – in cui il self-publishing può ancora poco. Però è sempre impagabile avere una possibilità di scelta. In fondo nessuno di noi sa cosa ci aspetta dietro l’angolo.
Quando ho deciso di percorrere questa strada non ero una giovane autrice piena di belle speranze che voleva piantare i semi di una futura carriera (e il “non giovane” si riferisce anche all’età). Avevo lavorato per una decina di anni come giornalista e altrettanti come sceneggiatrice televisiva. Avevo scritto tanto, ma anche aspettato tanto: che i giornali mi affidassero pezzi da scrivere; che le produzioni commissionassero delle sceneggiature.
Quindi, quando ho pensato che forse ero pronta per fare finalmente quello che più mi piaceva – e cioè scrivere un romanzo – avevo ormai zero-pazienza, e nessuna voglia di aspettare ancora. Volevo “fare”. Ed ero interessata al presente più che al futuro. (Come tutto è nato nel 2009, al Women Fiction Festival di Matera, ascoltando incantata il racconto dell’esperienza personale di autrici americane che già stavano vivendo questa grande rivoluzione editoriale, per il momento è un’altra storia.)
Non voglio dire che questa scelta sia la migliore, o che vada bene per tutti. È solo una di quelle possibili. Però non è semplicemente la strada della volpe che non arriva all’uva.
Il self-publishing mi ha costretto a lottare strenuamente contro la mia proverbiale pigrizia, contro l’avversione per la tecnologia e il mio carattere schivo. Ma mi ha anche permesso di scrivere i libri che volevo scrivere, di avere un rapporto fantastico con i miei lettori, e di poter vivere di questo lavoro.
Continuo a pensare che non sia poco.
Per più di vent’anni Giulia Beyman ha lavorato come redattrice, giornalista freelance e infine come sceneggiatrice per la televisione italiana. Dal 2011 si dedica a tempo pieno alla sua attività preferita, che è quella di scrivere libri. Autrice indipendente top seller nei primi cinque anni di Kindle Store Italia, il suo Prima di dire addio è stato l’eBook più venduto su Amazon.it nel 2014. Ha due serie letterarie all’attivo che contano migliaia di lettori. La prima è dedicata a Nora Cooper, la seconda si chiama Emma&Kate, progettata insieme alle colleghe Flumeri & Giacometti e Paola Gianinetto. Il suo romance La casa degli angeli, uscito nel 2019, è una delicata storia familiare e d’amore ambientata in Salento, di cui sono protagoniste le sorelle De Feo.