Leggo da diverso tempo, nei gruppi di lettura e scrittura, post al vetriolo sugli autori di thriller e noir che scelgono di dar vita a eroi problematici, magari dal passato traumatico oppure segnati da menomazioni fisiche e/o psicologiche che ne hanno compromesso la stabilità.
Tra i commenti, in ordine sparso:
“Si tratta di una moda del momento.”
“Denota poca capacità di caratterizzazione del personaggio.”
“Un investigatore instabile è poco credibile.”
Ma è proprio così? Una moda del momento?
D’accordo, il thriller/noir contemporaneo è una fioritura di personaggi menomati fisicamente (Cormoran Strike di Robert Gailbraith aka J.K. Rowling, o il mai dimenticato Lincoln Rhyme di Jeffery Deaver, tanto per fare due nomi) o psicologicamente (un esempio, per restare nei confini nazionali, è la Teresa Battaglia di Ilaria Tuti, che combatte con la degenerazione cognitiva imposta dall’Alzheimer).
Tuttavia, non è che i grandi detective della storia se la passassero tanto meglio: le turbe ossessivo-compulsive di Poirot, nello scenario odierno, non passerebbero inosservate a un esame psichiatrico, così come le strategie di coping di Sherlock Holmes, che combatte la periodica depressione scatenatagli dall’inattività con sostanze stupefacenti. Perché Sherlock sta bene con se stesso solo quando indaga, quando può fare ciò per cui è nato.
Anche nel post-noir profondo e revisionista di Dürrenmatt trovano spazio personaggi in precario equilibrio tra sanità e follia, come il commissario Matthäi del meraviglioso e inquietante La promessa.
Quindi no, non si tratta di una moda del momento né, a giudicare dai nomi sopra citati, un orpello di scrittori mediocri per mascherare le proprie scarse capacità. Piaccia o non piaccia (a me piace, ma de gustibus…), l’investigatore con qualche problemuccio è sempre stato presente nella letteratura di genere.
Ma perché?
Esistono almeno tre ordini di ragioni, due intrinseche alla costruzione e coerenza interna; una, invece, più inerente a una questione archetipica che sarebbe piaciuta molto a Jung, e di cui vi parlerò tra poco.
La piramide dei bisogni e l’eroismo come ossessione
L’eroe compromesso, quello che sta in piedi per miracolo e compie l’impossibile spingendosi laddove, per citare il capitano Kirk, “nessun uomo è mai giunto prima” non è, come alcuni ritengono, una forzatura della coerenza.
Al contrario, ha profonde giustificazioni nella struttura psicologica degli esseri umani.
Perché l’eroe del noir è quello che indaga sul “cold case” che nessuno vuole risolvere; oppure è colui che non si accontenta della spiegazione più logica e supportata dalle evidenze, e inizia un viaggio autodistruttivo alla ricerca di una verità visibile a lui soltanto.
L’eroe sacrifica tutto ciò che ha per dare giustizia a una vittima dimenticata, o per scagionare il capro espiatorio che tutti vogliono vedere sulla forca. L’eroe è il tizio che si sarebbe infilato in quella miniera maledetta per riportare a casa Rosso Malpelo, a scapito della propria vita. E perché una persona equilibrata e ben integrata nel proprio tessuto sociale dovrebbe affrontare una simile ordalia?
Le persone equilibrate lavorano sodo e con onestà, ma staccano quando il turno finisce e tornano alla propria vita “vera”, nella quale le attendono gratificazioni e ricompense che danno senso alla loro esistenza. Gli eroi sono spesso motivati da un vuoto, da una assenza.
Se prendiamo la nota, e mai tramontata, piramide di Abraham Maslow, gli esseri umani agiscono in base a una gerarchia di necessità fondata, alla base, sui bisogni fisiologici primari e che culmina con il desiderio di auto-realizzazione.
L’eroe ci appare spesso come una creatura nella quale tale piramide appare rovesciata, pronto a sacrificare sicurezza e stabilità per una meta di valore etico o sociale.
L’atto eroico (vedi Leonida alle Termopili) coincide quasi sempre con la compromissione di un bisogno primario: una scelta che una persona normale non farebbe.
Questa sovversione gerarchica scaturisce, necessariamente, da un modo di percepire e interpretare la realtà non convenzionale, anche “anormale”, se vogliamo spingerci a usare una parola forte. Alla base di questa sovversione vi sono talora vicende personali traumatiche o comunque complesse, tali da forgiare una visione del mondo diversa da quella più consueta.
Qualche esempio?
Colui che è riconosciuto come il più grande eroe di guerra della storia americana, Audie Murphy (1924-1971), cominciò a sparare per mantenere la famiglia dopo che il padre alcolizzato se n’era andato. Conosceva la morte da molto vicino, per aver perso diversi fratelli in tenera età.
Lo scenario bellico della Seconda Guerra Mondiale gli offrì la possibilità di trasformare quelle ferite in capacità uniche. La vita civile fu per lui molto più complicata, sopportabile solo col sostegno di medicinali e sostanze stupefacenti.
Anche il filantropo Oskar Schindler (1908-1974), che salvò innumerevoli vite durante l’Olocausto, ci appare come un uomo problematico, dal passato difficile, spregiudicato al limite dell’autolesionismo. Proprio quella spregiudicatezza e l’amore per il rischio, che tanta sofferenza causarono alla moglie, erano però il motore nascosto che lo portò a compromettersi per compiere la propria missione umanitaria. L’eroismo è una luna che spesso ha un lato oscuro, difficile da osservare, ma altrettanto importante.
Ed, Bud e Bidone: tre eroi alla ricerca di riscatto
Ma torniamo al noir. Credo che nessuno si azzarderebbe a definire James Ellroy un autore mediocre all’inseguimento delle mode. Eppure, in quello che è forse il suo lavoro più completo, L.A. Confidential, ci presenta tre anti-eroi dal cuore d’ombra: Bud White, posseduto da una violenza animale che si scatena soprattutto di fronte a chi picchia le donne; Ed Exley, spietato opportunista capace di mentire e ingannare per ottenere i propri scopi; Jack “Bidone” Vincennes, corrotto fino al midollo, alcolizzato, disposto a tutto pur di insabbiare il crimine che ne ha segnato l’esistenza.
I tre finiscono per stipulare una riluttante alleanza e combattere il morbo silenzioso che sta soffocando la Città degli Angeli, mettendo a rischio la propria posizione, i privilegi, la stessa vita, per svelare un mistero che tutti gli altri vogliono tenere nascosto.
Perché?
Ed desidera dimostrare al mondo di essere migliore del fratello deceduto in servizio; Bud vuole riscattare la propria identità di poliziotto fallito dal pugno facile, ma vuole anche dimostrare di essere meglio del padre, violento e stupido proprio come lui; Jack cerca l’ultimo atto di redenzione dopo una vita di scelte facili che lo hanno trasformato in un uomo senza valore.
Anche in questo caso l’eroismo è mosso, per tutti e tre, dalla percezione di una mancanza. Una persona in pace con se stessa, “normale”, avrebbe tentato di fare il proprio dovere ma forse, di fronte al rischio estremo, avrebbe compiuto un passo indietro, scegliendo di proteggere i propri cari e quella vita tanto preziosa. L’esistenza della persona equilibrata non è mai priva di significato o valore, per questo è così difficile metterla in gioco.
L’esoscheletro sociale
L’altra obiezione, secondo cui è poco credibile che una persona con un equilibrio psichico instabile finisca per fare il detective, si scontra però con un dato reale che la mia pratica clinica ha più volte confermato: persone con un passato difficile e una percezione identitaria danneggiata scelgono sovente la carriera militare e, spesso, fanno carriera.
Perché?
Perché l’ambiente militare offre struttura: gerarchie, ruoli, mansioni chiare, una routine spesso ben definita. Persone che convivono con la percezione di un’identità destrutturata e sotto la costante minaccia di una frammentazione imminente scelgono talvolta le forze armate, inclusi i corpi di polizia, spinti dal bisogno di un esoscheletro sociale che contenga e bonifichi questa angoscia di dispersione. E, proprio perché spinti dalla percezione di una mancanza profonda, sono devoti, efficienti, instancabili.
Lo scarso valore attribuito alla propria vita li rende spesso più coraggiosi degli altri perché meno preoccupati della propria sopravvivenza (se qualcuno sta pensando al mitico Martin Riggs del primo Lethal Weapon, beh, come posso darvi torto?).
Il prezzo della conoscenza
Questo non significa, ovviamente, che tutti o la maggior parte degli appartenenti alle forze di polizia siano persone in precario equilibrio psicologico. Generalizzare o, peggio, universalizzare, è un errore. Ma che questa eventualità sia meno irrealistica o infrequente di quanto si pensi è un dato di fatto con cui confrontarsi.
Esiste tuttavia anche una motivazione di ordine diverso alla base della scelta di molti autori di piazzare un certo numero di “sfighe” sulle spalle dei loro eroi. E, qui sì, forse noi autori noir e thriller siamo un po’ piacioni, perché scegliamo di appagare l’inconsapevole senso di giustizia che alberga nell’essere umano fin dalla notte dei tempi.
Chiediamoci per un istante: chi è il detective del romanzo?
Si tratta di qualcuno capace di vedere oltre le apparenze, mettere insieme indizi incompleti e, con la forza di una logica stringente (Poirot, Holmes e compagnia analizzante) o di un’intuizione quasi sovrannaturale (Adamsberg o Hole, per citarne un paio) risolvere il caso che sfuggiva a tutti gli altri.
È uno stregone, un semi-dio, un detentore assoluto di conoscenza. E, fin dagli esordi della narratologia, il detentore di conoscenza deve essere sfigato. Menomato. Mutilato. Qualche esempio?
Prometeo rubò il fuoco della conoscenza agli dei e ci rimise il fegato, per cominciare. Odino cedette un occhio per poter bere alla fonte del gigante Mimir e acquisire la saggezza. Cassandra, figlia del re troiano Priamo, poteva leggere il futuro, ma solo a prezzo di essere reietta e mai creduta. Tiresia, collega di Cassandra, poteva anch’egli vedere il futuro, ma nient’altro che il futuro: gli dei, infatti, lo avevano reso cieco.
E allora è giusto che Cormoran Strike sia storpio. Che Harry Hole sia un alcolizzato. Che Rhyme non possa alzarsi da quel letto. L’idea che le capacità speciali debbano accompagnarsi a un qualche tipo di perdita e rinuncia soddisfa il bisogno umano di scendere a patti con il proprio limite.
Quindi, in conclusione, è del tutto vero che il detective “menomato” (in senso fisico o psicologico) è un cliché. Un po’ meno vero è che tale cliché sia necessariamente una moda del momento o un trucchetto facile per accalappiare lettori, coniato da autori mediocri. Il poliziotto “sfigato” è erede di una nobile tradizione che affonda le proprie radici agli albori della narratologia.
Love it or hate it. I love it.
Ferdinando Salamino è nato nel 1971. Laureato in Psicologia Clinica a Torino, la sua vita si divide tra Milano, dove è nato, e il Regno Unito, dove esercita come psicoterapeuta e insegna Psicologia all’Università di Northampton. Il Kamikaze di Cellophane è il suo primo romanzo, inizialmente pubblicato con Prospero, nel 2019, e ora entrato a far parte della collana Ombre di Golem Edizioni. Il suo racconto breve Sangue Bianco compare nell’antologia Il Tallone di Achille: curata da Massimo Tallone (Golem Edizioni). Nel gennaio 2020 vede la luce il suo secondo romanzo, Il Margine della Notte (Golem Edizioni).