fbpx

Novità

Fruttero & Lucentini, raccontati da Carlotta

Lettori: 1840

Carlotta Fruttero, scrittrice, donna di cultura e figlia dell’indimenticato Carlo Fruttero, si occupa di tenere viva la memoria e di continuare a promuovere le opere della “premiata ditta” Fruttero & Lucentini, che ha realizzato alcune delle opere letterarie di maggior rilievo dell’ultimo trentennio del secolo scorso.

Tutte recentemente ripubblicate da Mondadori, che ha inoltre dedicato ai due autori Opere di bottega nella prestigiosa collana I Meridiani

Carlotta vive nell’incantevole Pineta di Roccamare, alle porte di Castiglione della Pescaia, in quella che è stata per tanti anni la casa della sua famiglia, circondata dai tanti libri e cimeli raccolti da suo padre, che è sepolto nel cimitero della località turistica maremmana. Con lei parliamo dei principali libri gialli dati alle stampe dalla coppia, soffermandoci anche su aneddoti e situazioni che ha vissuto direttamente durante la gestazione delle opere in questione.

Premesso che Fruttero & Lucentini vanno sicuramente ricordati, oltre che come scrittori, per le loro attività di traduttori, giornalisti e curatori di collane di fantascienza, nel percorso che li ha portati a diventare due dei più importanti autori italiani una delle tappe fondamentali è costituita dall’uscita, nel 1972, del loro primo romanzo La donna della domenica. Si tratta di un libro ambientato nella Torino “bene” di quell’epoca e che è considerato il capostipite del giallo italiano. Ci racconti qualcosa riguardo a questo libro e alla figura del commissario Santamaria incaricato delle indagini?

Quando uscì la Donna della domenica io avevo dieci anni e non mi resi conto di nulla. Il libro vendette un’enormità di copie e all’improvviso mio padre e Franco divennero molto popolari. Interviste, foto sui giornali, presentazioni ovunque. L’effetto della loro notorietà ebbe pessime ripercussioni su di me: a scuola tutti gli insegnanti di italiano, dalle medie al liceo, erano convinti che io dovessi per forza avere le stesse doti di mio padre, perciò leggevano i miei temi con occhio intransigente, aspettandosi il massimo. La frase ricorrente era “Con un padre come il tuo dovresti saper scrivere meglio di così…” Un incubo. Per questo forse mi sono disinteressata e in parte anche allontanata dal mondo della scrittura, della letteratura in generale. Leggevo tantissimo e ho smesso di colpo per una sorta di rifiuto inconscio, credo, ma si sa che l’aria che respiri in casa ti resta addosso e col tempo ho superato lo scoglio e mi sono, diciamo, rassegnata al mio destino. Ho letto la Donna della domenica piuttosto tardi, credo intorno ai sedici, diciassette anni, mio padre pensava che non fosse adatto alla mia giovane età specialmente per la scabrosa arma del delitto e certi temi, per così dire… inconsueti, che la coppia trattava apertamente per la prima volta in un romanzo giallo, ovvero la relazione omosessuale tra Lello e Massimo. Mi piacque immensamente, non riuscivo a staccarmi e leggevo fino a notte fonda, adoravo il commissario Santamaria, la sua ironia, il suo modo di indagare da tipico uomo del sud che osserva i fatti con occhio attento, disincantato, ma soprattutto privo di pregiudizi classisti. Credo che i due abbiano scelto un protagonista “meridionale” proprio per sfatare il luogo comune molto diffuso a quei tempi, ovvero che i meridionali fossero tutti scansafatiche, incapaci, e fondamentalmente immigrati indesiderati.

A tuo avviso, nonostante siano trascorsi quasi cinquant’anni dall’uscita de La donna della domenica il modo di scrivere e, soprattutto, le tematiche sociali e di costume trattate in questo libro, come del resto in altri della “ditta”, sono ancora attuali?

Secondo me sì, anzi, profetiche. Certe dinamiche dell’alta borghesia torinese, veneziana, senese sono rimaste immutate nel tempo e la bravura della coppia è stata proprio quella di coglierne l’essenza e descriverle con ironia, a tratti direi quasi ferocia. Quanto alla scrittura, la fluidità e scorrevolezza nascondono una ricerca quasi maniacale della parola adatta, dell’aggettivo calzante e una capacità non comune di rendere l’idea in una riga, senza inutili ridondanze o sbrodolamenti. Togliere piuttosto che aggiungere era il loro motto. Riguardo alle tematiche sociali invece basta rileggere la trilogia del Cretino o Il cretino è per sempre (Mondadori 2018) per rendersi conto che nel nostro paese nulla è cambiato da trenta quarant’anni a questa parte. Giusto i nomi dei politici. E i due si sono dimostrati ancora una volta dei visionari fuoriclasse nel saper cogliere le storture, le idiosincrasie, le patologie del nostro sistema, già immaginando che trenta quarant’anni dopo sarebbero risultate identiche.

L’omonimo film di Comencini del 1975 tratto da La donna della domenica, con un cast d’eccezione (Marcello Mastroianni, Jacqueline Bisset, Jean-Louis Trintignan), al di là del successo che riscosse, secondo te fu all’altezza del libro? Alla coppia piacque?

Moltissimo. Uno dei pochi adattamenti di un libro davvero riuscito. È sempre un piacere riguardarlo quando passa in TV. E la riuscita è da attribuire principalmente alla sceneggiatura impareggiabile di altri due geni del cinema Age&Scarpelli, che visionari ironici come Fruttero & Lucentini hanno saputo mantenere la loro stessa ironia e scorrevolezza anche sullo schermo. Un film che i due amavano e riguardavano con grande godimento.

Il commissario Santamaria è il personaggio centrale anche nel successivo giallo del 1979 A che punto è la notte, anche questo ambientato a Torino. Cosa ti ricordi circa la stesura di questo libro che, nel 1994, ispirò una miniserie televisiva in due puntate diretta da Nanny Loy (ultima sua regia) con protagonista ancora Mastroianni? 

Ricordo che me l’hanno fatto battere a macchina in Francia, nel rifugio di Lucentini sulle rive del Loing. Mia madre mi aveva spedito lì tutto agosto per punizione – ero scappata dalla finestra una notte ed ero tornata alle 6 del mattino e lei mi aveva aspettata seduta sul mio letto -, così i due un po’ per “intrattenermi” un po’ perché non ne potevano più di vedermi ciondolare tutto il giorno con l’aria affranta e annoiata, mi hanno promossa al ruolo di segretaria di edizione. Mio padre al pomeriggio mi dettava i pezzi che scriveva tutte le mattine e io sono stata la loro prima lettrice adolescente, una specie di cavia, e poiché la storia mi appassionava e volevo saperne sempre di più ho inconsapevolmente contribuito a rassicurarli: se una ragazzetta sedicenne si entusiasmava allora il romanzo funzionava davvero. 

So che sei particolarmente legata al giallo Enigma in luogo di mare ambientato nel periodo natalizio nella Pineta di Gualdana. Ci puoi dire perché?

Perché la Gualdana, ovvero la pineta di Roccamare, è il mio luogo dell’anima, dove ho vissuto tutte le cose più importanti della mia vita, nel bene e nel male. È il luogo dove ho scelto di passare il resto dei miei giorni, la casa che i miei genitori hanno voluto fortemente e amato profondamente. Entrambi se ne sono andati in questa casa, entrambi sono sepolti al cimitero di Castiglione. È un luogo pieno di energia e quiete al tempo stesso, dove la natura è la vera protagonista, un luogo in cui mi sento protetta e che mi ha sempre dato la forza di reagire di fronte ai dolori e alle difficoltà, qui sono caduta mille volte e qui mi sono sempre rialzata. Non potrei vivere da nessun’altra parte.

Nonostante l’atmosfera sinistra che si respira nella pineta scarsamente popolata di “Enigma in luogo di mare”, il libro riserva anche talune scene divertenti. Possiamo dire che questa era una caratteristica del modo di scrivere della coppia e di tuo padre in particolare?    

Sì certo, sia lui che Franco erano dei maghi nel trasformare le tragedie piccole o grandi della vita in esilaranti commedie. Mio padre specialmente diceva sempre che se l’autoironia, anche quella più nera, è il vero antidoto contro la depressione e con il suo esempio ha cercato di trasmettere anche a me questo prezioso insegnamento. Ci ho messo anni per assimilare la lezione ma credo di esserci finalmente arrivata….

Come fu accolto dalla comunità senese il giallo sui generis del 1983 Il palio delle contrade morte?

Direi che fu un grande successo. Oltretutto mio padre si è avvalso della consulenza di amiche preziose, contradaiole per nascita, Titti Nepi e Vittoria Barabino che lo hanno ospitato a Siena, mostrandogli i segreti delle contrade e della vita “palio-centrica” della città che non si limita a vivere il Palio a luglio e agosto ma lo vive tutto l’anno. Una città che mio padre amava moltissimo e cercava di andarci almeno una volta ogni estate, non solo per assistere alla corsa, ma per visitarla e conoscerla sempre meglio. 

Scrivere non è semplice, scrivere bene ancor meno. Scrivere a quattro mani presenta indubbiamente complicazioni ulteriori e richiede grandissimo affiatamento tra i due autori. Sai se tuo padre e Franco Lucentini utilizzassero qualche tecnica particolare per rendere la storia fluida e senza distonie di stile e d’impostazione?

Credo che il loro segreto fosse la straordinaria sintonia che li accomunava, avevano la medesima visione della vita, coglievano gli stessi aspetti e godevano entrambi delle stesse cose. Avevano un’attenzione maniacale nell’individuare i dettagli infinitesimi che poi sono quelli che fanno la differenza. Amavano la lingua italiana e tutte le lingue in generale. Franco ne conosceva diciassette. Per loro era fondamentale l’armonia di una frase, la musicalità, le parole avevano un’importanza assoluta: mai scontate, mai banali e mai retoriche. Per questo nei romanzi è impossibile distinguere chi ha scritto cosa. Credo che sia l’unico esempio di scrittura a quattro mani che ha resistito nel tempo, non si è esaurito dopo il primo esperimento ben riuscito, anzi si è consolidato raggiungendo una perfezione stilistica straordinaria.

Il sodalizio tra i due scrittori si ruppe tragicamente nell’agosto 2002 con il suicidio di Franco Lucentini, gravemente ammalato. Tuo padre, profondamente colpito dalla triste vicenda, smise di scrivere per alcuni anni. Poi, grazie al sostegno familiare e tuo in particolare, nel 2006 pubblicò il suo primo romanzo da solo Donne informate sui fatti. Com’è nata questa opera e cosa puoi dirci riguardo alla sua trama?

Mio padre e Franco hanno sempre amato le sfide letterarie, non a caso tutti i romanzi sono ambientati in contesti e luoghi diversi e non a caso hanno sempre rifiutato di scrivere la cosiddetta “serie” del commissario Santamaria. All’appello mancava un romanzo corale e credo che mio padre l’avesse in mente da molto tempo. Con la morte di Franco ha rischiato di congelare qualsiasi tentativo di sperimentazione, ma poi la passione ha preso il sopravvento e ha cominciato a scrivere Donne informate sui fatti, in cui otto donne raccontano in prima persona, con linguaggi e stili diversi, lo stesso fatto, o percezione del fatto. Un esperimento riuscitissimo che ho visto nascere e crescere fino all’ultima riga. Lui scriveva a mano ogni mattina sul bloc-notes a quadretti e nel pomeriggio mi dettava tutto. Un’avventura straordinaria che ho avuto la fortuna di condividere con lui e che mi ha insegnato tantissimo, non solo dal punto di vista letterario, ma soprattutto umano. Uno dei regali più belli che mi ha fatto.

Per chiudere, vuoi raccontarci cosa ti ha spinto a scrivere il libro La mia vita con papà, che hai pubblicato con Mondadori nel 2013 dopo la morte di tuo padre avvenuta un anno prima? 

Lo definirei un “romanzo su commissione”. Dopo il successo di Donne la Mondadori ha chiesto a mio padre di scrivere la sua autobiografia, ma lui, uomo riservato e per nulla vanesio, si è ovviamente rifiutato dicendo: la mia storia la scriverà Carlotta e si intitolerà La mia vita con papà. Aveva già anche trovato il titolo, pensa… Così dopo la sua morte l’editore mi ha puntualmente proposto di raccontarla. Non sapevo da dove cominciare, poi un giorno mettendo a posto i taccuini e le carte di papà ho trovato le letterine che mi scriveva quando ero piccola e lui era in isolamento volontario in Francia o a Roccamare per lavorare ai romanzi. Erano talmente divertenti e affettuose che ho deciso di partire da lì, il resto è venuto da sé: mentre leggevo le sue lettere mi venivano in menti episodi del nostro quotidiano e alla fine è stato più semplice di quanto pensassi. In fondo la storia che raccontavo era anche la mia, non dovevo inventarmi nulla, bastava lasciarsi trasportare dai ricordi.

 

Per non perdere i prossimi articoli iscriviti alla Newsletter di Giallorama ==> MI INTERESSA