Giampaolo Galli è un grande appassionato di Storia americana ed è autore di sceneggiature e romanzi ambientati nel Nuovo Mondo, tra Ottocento e Novecento. Tra le sue opere troviamo Along the River – La frontiera spezzata, da cui è stato tratto un cortometraggio con Franco Nero, vincitore agli American Movies Awards 2016. Mentre nel 2017 firma il soggetto e la sceneggiatura di In Principio, selezionato ai Nastri d’Argento 2019.
Ma oggi vogliamo parlare del suo ultimo romanzo: Matanza – Storia dell’indicibile massacro di Torreón, edito dalla casa editrice Oakmond Publishing.
Matanza è un romanzo storico con un’alta componente di crimini e ingiustizie. Fa da sfondo il massacro di Torréon, che colpì duramente la comunità cinese che viveva in Messico. Perché hai deciso di collocare la storia di Juana, la protagonista del romanzo, proprio in questo specifico momento storico?
La scelta è stata un caso fortuito, come spesso accade quando si indaga a fondo tra le pieghe della storia. A differenza del primo romanzo, nel quale i personaggi erano quasi tutti maschili, in Matanza avevo deciso di cimentarmi con una protagonista femminile e di ambientare la vicenda in un contesto storico e culturale diverso.
Scelsi la Rivoluzione Messicana, un conflitto poco conosciuto e complesso, che in passato aveva contraddistinto un certo cinema di genere, basti pensare a film come Giù la Testa di Sergio Leone o al Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah.
Una volta fissato il quadro cronologico, iniziai a scandagliare il periodo alla ricerca di ulteriori spunti e informazioni, e m’imbattei per puro caso sull’eccidio di Torréon, che mi colpì per la sua efferatezza e brutalità. Mi spinsi oltre nell’indagine, e mentre affioravano qua e là testimonianze e descrizioni raccapriccianti di quanto era accaduto, sentii crescere il desiderio di raccontare questa triste vicenda attraverso la fiction che avevo già in mente.
In questo percorso, oltre alla passione per la storia americana, mi ha accompagnato anche una motivazione più profonda, legata alla sfera personale.
Sono figlio di esuli istriani, che più di settant’anni fa hanno conosciuto l’orrore delle foibe e della pulizia etnica. Solo recentemente questa pagina dimenticata della storia d’Italia è stata riconosciuta come tragedia nazionale, e oggi fa parte della nostra memoria condivisa.
La mattanza di Torréon, pur con tutte le distinzioni possibili, ha toccato la mia sensibilità, riaprendo una ferita che aveva segnato le vite dei miei famigliari. L’odio che infiamma le guerre civili, non fa distinzioni fra torti e ragioni, colpevoli e innocenti, e la Rivoluzione Messicana non rappresenta certo un’eccezione.
Nella vicenda di Torréon furono proprio le forze progressiste, portatrici degli ideali di riforma e giustizia sociale a commettere i crimini più nefandi contro una popolazione pacifica e inerme.
Credo che riportare alla luce questa strage dimenticata, forse scomoda e rimasta impunita per oltre un secolo, sia anche un modo per ricordare che il male è insito nella natura umana, e che le prime vittime di ogni guerra sono sempre l’innocenza e la verità.
Hai avuto difficoltà a reperire informazioni storiche attendibili sul periodo in cui è ambientato il romanzo? E quali sono stati, se ci sono stati, gli archivi online che ti hanno restituito maggiori informazioni sui luoghi e gli eventi realmente accaduti?
Le fonti storiche in italiano sono estremamente scarse e frammentarie, ma grazie alla buona padronanza dell’inglese e dello spagnolo riuscii a recuperare gran parte dei documenti disponibili in rete. Non mi sono affidato a un testo unico in particolare.
La maggior parte del materiale era costituito da stralci di giornale, testimonianze, eventi commemorativi e articoli su portali di storia del Messico, che mi hanno permesso di ricostruire un quadro generale della situazione.
Circa un mese fa, quasi in contemporanea con la pubblicazione di Matanza è uscito La casa del dolore altrui, di Juliàn Herbert, un testo che fa luce sui particolari della strage attraverso una minuziosa indagine svolta dall’autore negli archivi messicani.
Protagonista del romanzo è Juana, una giovane donna messicana che viene sfruttata, costretta alla prostituzione e schiavizzata. I crimini contro le donne sono un tema caldo quando si parla di storia messicana, ci viene in mente il film con Jennifer Lopez, Bordertown (2006). Un argomento complesso, spinoso e di grande attualità. Come sei riuscito a immedesimarti in un personaggio non facile come Juana?
Il film che hai citato dimostra come la difficile condizione femminile in Messico sia ancora oggi una questione dibattuta e ampiamente irrisolta.
Juana è una giovane contadina indigena, che viene ceduta dalla sua famiglia a un ricco possidente terriero. La ragazza vivrà un vero e proprio calvario passando di mano in mano, fino a prostituirsi in una sorta di bordello ambulante nella periferia di Torréon. Nel corso della sua lunga disavventura, Juana non rinuncerà a sperare in un futuro migliore, ma rimarrà una vittima in balia degli uomini e degli eventi, fino al riscatto finale.
Nella costruzione del suo personaggio mi sono tenuto volutamente distante dallo stereotipo dell’eroina tutta azione e avventure, una caratterizzazione che a mio avviso avrebbe compromesso il realismo della storia. Le figure a cui mi sono ispirato rimandano piuttosto alla guatemalteca Rigoberta Menchù, premio Nobel per la pace 1992, o alla taciturna e anonima Cleo, la domestica del pluripremiato film Roma, di Alfonso Cuarón, personaggi che mantengono inalterata un’ingenuità di fondo e racchiudono in una silenziosa grazia contadina tutta la loro forza e femminilità, senza mai trascendere.
Oltre a Juana ci sono vari personaggi che alzano sin da subito il livello crime della storia. Puoi parlarci anche dei personaggi secondari?
Il primo ad apparire sulla scena è Don Felipe Duarte Velasco, un aristocratico latifondista, che incarna il potere oligarchico delle prime famiglie di colonizzatori del Messico. La sua figura, che ricorda molto da vicino quella di Esteban Trueba – uno dei protagonisti della Casa degli Spiriti di Isabel Allende – ha una duplice funzione narrativa: scatena il primo dramma di Juana e ci introduce nel pesante clima di oppressione e ingiustizia sociale del Paese, l’innesco da cui divamperà il fuoco rivoluzionario.
Il vero antagonista di tutta la vicenda è però Osvaldo Ramirez, lo sfruttatore a cui viene venduta la ragazza. Figlio di madre messicana e padre apache, ha alle spalle un trascorso di miseria e violenze, che lo hanno reso un uomo astuto e spietato, privo di qualsiasi principio morale.
Juana, nutrirà nei suoi confronti un sentimento di vero terrore e sudditanza, ugualmente condiviso dalle sue compagne di sventura.
Il mentore della storia è il tenente dei rurales Antonio Machado, un giovane ufficiale che s’innamora della ragazza e tenterà di sottrarla al suo triste destino. Nella vicenda ha un ruolo importante, da coprotagonista, ed è combattuto tra il senso del dovere e la diserzione.
Per ultimo, citerei ancora Camilo Fuentes, il comandante contadino dei rivoluzionari maderisti, un uomo rozzo e violento, accecato da un’avidità senza limiti, e che incarna molto bene la classica figura del bandito messicano, immortalata in svariate pellicole del genere western.
Sei un grande appassionato di storia western, ci sono punti di congiunzione tra Matanza e Along the River?
L’epoca nella quale sono ambientati i due romanzi pressappoco coincide, così come gran parte degli ambienti naturali descritti.
Il deserto di Chihuahua si estende ben oltre il confine americano ed è contiguo alla zona dei Four Corners, dove si svolge la vicenda di Along the River.
C’è quindi una sorta di continuità spazio-temporale tra le due opere, che tuttavia s’interrompe nel momento stesso in cui attraversiamo la frontiera politica tra Stati Uniti e Messico, una linea lungo la quale il mondo anglosassone e quello latino si fronteggiano con diffidenza, senza mai incontrarsi.
Il Messico dilaniato dalla rivoluzione è un’appendice del violento farwest, un’epoca che si è appena conclusa nell’America della Belle Époque, lanciata verso una modernità travolgente e contagiosa. In Along the River la colonizzazione del Paese è ormai un fatto compiuto, ineluttabile, sancito quasi per decreto. Lo sguardo rapace dei nuovi pionieri non è più rivolto a ovest, verso le sconfinate distese selvagge, ma indugia nel sottosuolo e sulle immense ricchezze che questo racchiude.
Il Messico del primo ‘900 è al contrario una nazione arretrata e corrotta, in mano a dittatori, a piccoli feudatari e ai signori della guerra, che spadroneggiano impuniti, in un caos inestricabile di alleanze e tradimenti.
Along The River e Matanza, seppure ambientati nello stesso periodo, raccontano due Americhe diverse, e la linea sinuosa del Rio Grande diventa il confine metaforico tra il Nord e il Sud del mondo e delle rispettive culture.
Da dove nasce la tua passione per il Vecchio West?
Sono nato nel 1963 e appartengo a una generazione cresciuta a suon di Tex, soldatini e cinema di periferia. Verso la fine degli anni ’60 e inizi ’70 c’erano a Trieste quasi trenta sale cinematografiche, molte delle quali proiettavano in contemporanea film di genere western, che spesso rimanevano in programmazione per settimane intere.
Ricordo ancora con nostalgia i pomeriggi trascorsi al cinema con mio padre: sale gremite di gente sprofondata nelle cigolanti poltrone di legno, mentre sul grande schermo campeggiavano i primi piani di un rassicurante John Wayne, gli occhi obliqui di Charles Bronson o il volto imbronciato di Clint Eastwood, col mezzo sigaro in bocca. Icone mitologiche di un cinema epico.
Col trascorrere degli anni i western diminuirono fino a scomparire quasi del tutto e anch’io smisi di portare i calzoni corti e di giocare a cowboy e indiani nel cortile dietro casa, ma l’interesse per la Frontiera americana mi rimase impresso come un tarlo e cominciai a recuperare i pochi testi in italiano allora disponibili sulla storia del West.
L’infatuazione giovanile lasciò il posto a un’appassionante ricerca storica, che negli anni a seguire integrai con la pittura, la fotografia e con diversi viaggi nell’Ovest americano, in Canada e in Messico.
L’arrivo di internet diede un nuovo impulso a questo lungo percorso, e mi procurai una valanga di libri in inglese e spagnolo, iniziai a scrivere articoli e racconti sui forum dedicati, fino a quando giunse l’occasione più insperata, l’incontro con il cinema.
Il giorno in cui vidi Franco Nero recitare sul set le parole che avevo messo in bocca al protagonista di Along the River, capii di aver chiuso un cerchio iniziato quasi cinquant’anni prima in un anonimo cinema di periferia pieno di fumo, seduto accanto a mio padre.
Leggere i tuoi romanzi ci ha ricordato le ambientazioni e le suggestioni dei videogiochi della serie Red Dead, tutti ambientati nel periodo del Far West, e dei fumetti del grande Tex Willer. Quali sono stati gli autori che più hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?
Tra gli anni ’70 e gli ’80 la Longanesi pubblicò una collana di romanzi di genere western, che mi diedero la possibilità di conoscere diversi autori americani, allora sconosciuti in Italia, ma molto popolari negli Stati Uniti.
Le opere di Gordon D. Shirrefs, Lewis B. Patten, Louis L’Amour e Theodore V. Olsen, colmarono il vuoto lasciato dal cinema western, entrato ufficialmente in crisi con la conclusione della guerra in Vietnam, ma non riuscirono mai a fare breccia nel pubblico italiano e a conquistare la popolarità che avevano raggiunto oltreoceano.
Il ricco filone, che così tanto aveva entusiasmato i ragazzi della mia generazione, si era ormai esaurito sotto l’incalzare di un revisionismo storico demitizzante e contestatario.
Agli inizi degli anni ’90 apparvero sul grande schermo pellicole che riproposero la grande avventura del West sotto un’angolazione diversa.
Film come Balla coi Lupi o Gli Spietati, conquistarono pubblico e critica, portando nuova linfa vitale a un genere che molti consideravano già defunto. Non si trattò di un episodio isolato, e negli anni seguenti Non è un paese per vecchi e The Revenant hanno confermato questa tendenza.
Lo stesso accadde per la narrativa, con le opere di John Lansdale, Philip Meyer e Cormac Mc Carthy, che rivisitarono il mito della frontiera americana spogliandolo di tutte le falsità, le aberrazioni e i cliché che lo avevano caratterizzato negli anni ’50 e ’60.
Venne introdotto un linguaggio più realistico, fedele alle situazioni e libero da stereotipi. Tematiche importanti come la discriminazione razziale, la distruzione ambientale, l’annientamento culturale e la violenza di genere, s’imposero come nuovi fili conduttori, nella letteratura come nel cinema.
Del resto, quando si parla di Western, diventa quasi impossibile scindere una forma espressiva dall’altra.
Tra i vari scrittori citati, quello a cui mi sento maggiormente legato è sicuramente Cormac Mc Carthy, uno dei massimi esponenti della letteratura americana contemporanea, autore di opere indimenticabili come Blood Meridian, Cavalli Selvaggi e Oltre il Confine.
Credo di aver attinto molto dalle sue opere, e da un romanzo in particolare, Blood Meridian, che Harold Bloom ha descritto come “Il romanzo più grande, violento, apocalittico e necessario scritto da un autore vivente”.
Progetti per il futuro?
Attualmente sto lavorando a un nuovo romanzo, ambientato a cavallo del confine tra Messico e Stati Uniti durante l’ultimo periodo della campagna militare contro gli apache di Geronimo. Si tratta di un western con una forte impronta thriller.
Ho appena terminato la prima stesura, ma ci vorrà ancora un bel po’ prima di consegnarlo all’editor.
Nel frattempo continuo a collaborare con il regista Daniele Nicolosi per nuovi progetti cinematografici, alcuni dei quali speriamo di realizzarli entro il prossimo anno. Se da un lato il lockdown dovuto alla pandemia ha rallentato la macchina del cinema, dall’altro mi ha permesso di gettare le basi per nuove stesure.
L’importante è fare di ogni ostacolo un’occasione buona per continuare ad alimentare la fiamma della creatività.

Il lato oscuro della narrativa, come non lo hai mai letto.