Quegli incredibili anni Sessanta! Furono rivoluzionari a Londra e dintorni dalla moda al cinema, dalla musica all’arte, per sporcarsi le mani anche con la televisione. E, proprio in TV, partorirono una serie destinata a sconvolgere la cultura moderna e influenzare negli anni successivi anche altri ambiti come l’architettura, i video musicali e la letteratura. Era un prodotto che esulava dal genere: fantascienza, spionaggio, thriller… ogni classe di attribuzione sarebbe stata troppo stretta per Il Prigioniero.
Pensate al Rover, quella angosciante sfera bianca che inseguiva gli abitanti del villaggio che cercavano di scappare. Ha turbato i sonni di generazioni intere di artisti che l’hanno riproposta in diverse forme nei loro concerti, nei loro video e nei loro libri.
Il Prigioniero era un vero e proprio cult e durò una sola stagione di diciassette episodi (non citerò per decenza il remake del 2009). Una trama sconvolgente che spaziava da Kafka a Orwell, con un finale talmente fuori di testa, da turbare il suo enorme pubblico per settimane.
Come scrisse Roger Langley in 50 Years of The Prisoners:
“Il Prigioniero è stato per la televisione quello che Sgt. Peppers dei Beatles è stato per la musica”.
Non si può descrivere Il Prigioniero senza partire da Danger Man, la serie che lo precedette con protagonista Patrick McGoohan, un attore nato a New York, ma cresciuto in Irlanda e Inghilterra.
Danger Man era una serie d’azione della ITV trasmessa dalla televisione britannica tra il 1960 e il 1968. Il protagonista era l’agente segreto John Drake che diede molta popolarità all’attore che lo interpretava. Si sfruttava, ovviamente, la tecnica James Bond (il primo film della serie era uscito nel 1962, ma i romanzi erano dei best sellers da molti anni), fatta di trame spionistiche che si intrecciavano in contesti glamour e fantasiosi.
Tutto sembrava perfetto, ma Patrick McGoohan voleva qualcosa di più. La casa produttrice, soddisfatta del successo, gli diede carta bianca con la collaborazione di David Tomblin e George Mankstein, che avevano lavorato a Danger Man come aiuto registi e sceneggiatori.
George era un esperto di spionaggio e parlò a Patrick di una storiella che si raccontava, durante la Seconda Guerra Mondiale, secondo cui i Servizi Segreti Britannici avrebbero allestito in aree sperdute della Scozia quelli che, ufficialmente, erano chiamati luoghi di addestramento ma, in realtà, erano dei veri e propri campi di prigionia, dove erano internati gli agenti segreti sospettati di tradimento. I due pensarono che sarebbe stata un’ottima idea per una serie.
Un ex agente di una misteriosa organizzazione sarebbe stato il protagonista e non avrebbe avuto un nome. Molti fan individuarono in lui John Drake, anche se i produttori smentirono sempre un contatto tra le due serie. Anche la location principale del Prigioniero era stata vista in alcuni episodi di Danger Man dove si presentava come una cittadina mediterranea in Italia.
Quasi nessuno se ne accorse perché Portmeirion, l’elegante e stravagante villaggio nelle coste del Galles, ancora oggi meta di pellegrinaggi dei fan, all’epoca di Danger Man, non era ancora stata completato.
Comunque, indipendentemente dal fatto che fosse o meno la prosecuzione di Danger Man, gli spettatori britannici il primo ottobre 1967 videro qualcosa di totalmente nuovo. Sarebbero stati trasportati in un mondo segreto, pieno di misteri.
Chi era quell’uomo che nella sigla iniziale dava le dimissioni, preparava la valigia per andarsene da Londra, veniva rapito e si risvegliava in un villaggio, dove nessuno aveva un nome, tutti avevano un numero, lui era il numero 6 e si ribellava, dichiarando di essere un uomo libero?
Il pubblico, come il protagonista, era ignaro di dove si trovasse e dei misteri che lo circondavano. Inoltre, stava per iniziare il Sessantotto e quel “Io non sono un numero!”, vero e proprio messaggio di fondo della serie, era molto potente nell’ambito della controcultura di moda nel periodo.
Una sola stagione! Pazza e rivoluzionaria, tanto che l’ultimo episodio, volutamente confusionario nella gestione del punto di vista e trionfo del caos in un mondo di regole, destabilizzò gli spettatori.
Gli hater esistevano già allora, anche senza Internet, e i telefoni del network televisivo furono sommersi di telefonate di proteste. Lo stesso McGoohan, in una delle sue rare interviste, dichiarò che fan delusi lo seguirono a casa, come se fosse un dittatore dopo una rivolta.
Erano stati prodotti diciassette episodi a un costo elevato e il discreto successo di nicchia tra gli spettatori del Regno Unito, senza grossi ricavi dalla vendita all’estero, portò la compagnia di produzione formata da Patrick McGoohan al fallimento.
L’attore, criticato e massacrato dal pubblico, preferì ritirarsi in produzioni cinematografiche e teatrali; ma era solo questione di tempo. Nel giro di qualche anno, la serie fu totalmente rivalutata e diventò un fenomeno di culto assoluto. Troppo tardi per sistemare il dissesto finanziario di una società ma non abbastanza per posizionare una produzione alla storia della televisione.
Il Prigioniero per me anticipò di decenni opere straordinarie quali I segreti di Twin Peaks e Lost.
Secondo te, Il Prigioniero rappresenta la migliore serie TV britannica della storia? Per molti appassionati lo è, ma qui si apre il dibattito. Scrivici cosa ne pensi.
Conosciuto dai fan di James Bond per le sue guide alle locations dei film tra cui Dall’Italia con amore (Edizioni del Faro, 2012). Nel 2013 un suo racconto è stato pubblicato nel volume Girls della raccolta YouCrime (Rizzoli Lab/Il Corriere della Sera). Ha scritto articoli per alcune riviste tra cui Turisti per caso, Note e La Freccia. Con lo pseudonimo Darko Bay ha pubblicato i romanzi Regola di ingaggio (Segretissimo Mondadori, 2017) e Regola d’onore (ZeroUnoUndici, 2019) oltre a numerosi racconti action.