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Intervista fuori orario a Cristiana Astori

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Che poi ci sono quelle notti in cui fatichi a prendere sonno e allora apri il libro che tieni appoggiato sul comodino con la voglia di lasciarti trasportare in un mondo fantastico, popolato di streghe, supereroi nerd, biechi assassini e timide vittime. Ecco, se anche tu sei alla ricerca di quelle emozioni notturne, l’ultima opera di Cristiana Astori è essenziale per posizionarsi sul tuo comodino da notte.

Fuoriorario è una raccolta di ventidue racconti che spaziano dal thriller all’horror, senza tralasciare lo splatter e l’umorismo. Contiene il meglio della pubblicazione “breve” di questa autrice piemontese ma che vive a Roma da alcuni anni: ventidue misteri che, a parte qualche inedito, raccolgono passate pubblicazioni su riviste e antologie.

Vediamo di conoscere meglio questa autrice che ci ha gentilmente concesso un po’ del suo tempo per trasportarci nel suo mondo fantastico.

Cristiana, prima di chiacchierare del tuo ultimo lavoro, io partirei da Susanna Marino, il personaggio seriale protagonista della tua trilogia dei romanzi di Tutto quel… colore nei Gialli Mondadori, oltre che dell’ottimo Tutto quel buio uscito per Elliot nel 2018. E inizierei da lei perché è una ragazza appassionata di cinema che ha, nella ricerca di film introvabili, il gusto di ficcarsi nei guai. Ora, tutti i tuoi lettori penso ti rivedano in lei e quindi, sperando che non sia una caratteristica comune anche il “il ficcarsi nei guai”, vorrei chiederti quanto il cinema sia importante nel tuo bagaglio culturale e nel tuo lavoro?

Ciao a tutti, e grazie per avermi invitato qui su Giallorama! Diciamo che Susanna, come tutti i personaggi, ha somiglianze e differenze con il suo creatore: nell’aspetto per esempio è mora e dagli occhi scuri, molto vicina all’attrice Soledad Miranda (chi ha letto Tutto quel nero capirà perché) dunque piuttosto diversa da me che sono rossa e dal pallore cadaverico… poi in effetti la fissazione per il cinema ci accomuna, e anche la tendenza a cacciarsi nei guai: Susanna con la sua passione per le pellicole maledette, io con quella per la scrittura, entrambe due folli imprese, direi! Scherzi a parte, come dici tu il cinema ha senza dubbio un ruolo fondamentale nelle mie storie: ho sempre amato a pari merito leggere e vedere film, ma quand’ero ragazzina le pellicole che piacevano a me, horror e noir, erano “proibite”, e si sa che ciò che da piccolo ti viene vietato, non puoi che desiderarlo… un po’ come il junk food per chi viene obbligato a mangiare salutista, insomma. Inoltre il tipo di scrittura che prediligo è quella visiva, e il media cinematografico fornisce alla narrazione diversi spunti stilistici, tra cui un uso frequente del montaggio, del teaser e del descrivere simulando movimenti di macchina, soggettive, specifiche inquadrature o un’immaginaria colonna sonora, il tutto per dare al lettore l’impressione di assistere a un film. Mi è successo spesso che mi venisse detto “ho visto il tuo libro” anziché “ho letto” e ammetto che per me è un vanto.

Oltre a scrivere romanzi e racconti, sei anche traduttrice e sceneggiatrice di fumetti. Quanto queste esperienze alternative ti sono state utili?

Vero, in passato ho tradotto parecchi autori da Jeffery Deaver a Richard Stark fino al ciclo di Dexter di Jeff Lindsay che ha ispirato l’omonima serie tv. Tradurre è faticoso ma appassionante perché ti permette di entrare nella mente dell’autore, di apprenderne i trucchi e le strategie narrative e nello stesso tempo è un continuo esercizio di scrittura: in inglese si utilizza lo stesso termine in tante accezioni diverse, mentre l’italiano è più variegato; il compito di chi traduce è trovare la parola adatta al contesto, che è poi lo stesso lavoro che fa un autore quando scrive. Suggerisce Stephen King di non utilizzare tre aggettivi quando si descrive, ma soltanto uno, quello giusto. E in questo tradurre è un esercizio prezioso.

Anche sceneggiare fumetti è stato importante per la mia formazione, perché ti aiuta a raccontare in modo visivo, a cogliere determinate inquadrature e ad asciugare dialoghi ridondanti. E in questo non posso non citare i miei maestri che ho letto, riletto e amato fin da ragazzina: Tiziano Sclavi (non solo in Dylan Dog ma nelle mitiche indagini dell’Agente Allen che leggevo sul Giornalino), poi Garth Ennis, Frank Miller e Neil Gaiman, ma anche i Satanik di Magnus & Bunker e il grande Diabolik delle sorelle Giussani.

Veniamo ai racconti. Tu sei un’autrice prolifica di racconti. Fuoriorario è un esempio della tua storica produzione su riviste e antologie e, prima di esso, c’è stato anche il meraviglioso Re dei topi (Alacran, 2006). Io adoro i racconti. Le raccolte sono il libro perfetto da posizionare sul comodino da notte come dicevo all’inizio. Cosa esprimono i racconti per te e quanto si differenzia il tuo approccio nel realizzarli rispetto al lavoro che svolgi per un romanzo?

Be’ per continuare a parlare di cinema, se un film è un romanzo i racconti sono cortometraggi: il loro obiettivo non è tanto avere una trama articolata e personaggi complessi ma saper trasmettere un’emozione. Nel caso del Re dei topi e di Fuoriorario l’emozione è ovviamente la paura, e spero in alcuni di essi di esserci riuscita.

Il mio approccio di partenza rispetto al romanzo varia: nel primo è importante avere un personaggio carismatico comunque empatico e una trama ben costruita, nei racconti quello che conta e che spesso mi dà l’idea per la storia è il colpo di scena finale. In questo ammetto di essermi fatta influenzare da Edgar Allan Poe, Richard Matheson e dalle raccolte “Alfred Hitchcock presenta” e “Zio Tibia”, che divoravo da ragazzina.

La maggior parte dei concorsi horror e noir chiede agli autori esordienti di cimentarsi in un racconto: è opinione comune che sia più semplice di un romanzo, invece non lo è affatto. Una storia breve richiede una scrittura asciutta ed efficace, capace in poche pennellate a ideare situazioni e personaggi, e a sbalordirti nel finale: non è da tutti, e un esordiente che ci riesce, dinanzi alla stesura di un romanzo non ha nulla da temere.

Fuoriorario si divide ordinatamente in tre parti dedicate rispettivamente al noir, all’horror e allo splatter. Ogni capitolo ha i suoi racconti di genere anche se la mia sensazione è che ti diverta molto a mischiarli i generi. È vero?

Assolutamente. Lo stesso Poe, uno dei miei Maestri, univa il giallo con l’horror e con il mystery, e lo stesso Joe Lansdale mescola thriller, noir, pulp, racconto di formazione, fumetto e in alcuni racconti anche la fantascienza. La contaminazione svincola la scrittura dalle gabbie del genere e dalla prevedibilità, rendendola anarchica, sorprendente e viva. Tutto quel nero, il mio primo romanzo, mescola giallo classico, thriller argentiano anni Settanta e ghost story gotica: ora il genere è piuttosto imitato, ma quando uscì, nel 2011, era ancora sperimentale e sono grata al grande Alan D. Altieri e al Giallo Mondadori per aver creduto in una storia così strana e fuori dalle regole.

Ho adorato il tuo racconto sulle “masche” (le streghe piemontesi). Io anni fa le resi protagoniste in una mia breve opera, pur dai paesaggi più urbani rispetto alla tua, e, per prepararla, mi appassionai ai racconti popolari della nostra regione. Quanto ti senti influenzata dalla cultura della tradizione?

Be’ i primi libri che lessi da piccola erano quelli di fiabe, e mi hanno sempre affascinato, non per niente la mia raccolta di esordio è dedicata alle “favole oscure”. Le storie horror, quelle più efficaci, sono una metafora per raccontare la realtà e il male del quotidiano, ma il travestimento fiabesco le rende più accettabili, e insieme catartiche. Stessa cosa avviene con i racconti che la tradizione perpetua attraverso il folklore, e la stessa masca è l’archetipo per descrivere la ghettizzazione e i pregiudizi di cui le donne sono state vittime nei secoli, specie in zone arretrate come le campagne o le montagne. L’obiettivo del mio racconto, Il libro del comando, era proprio questo, narrare di tali violenze con uno sguardo al territorio e alla tradizione (in questo caso le Langhe) ma utilizzando nello stesso tempo gli stilemi del thriller e dello slasher anni Ottanta… e anche qui la contaminazione fa da sovrana!

Com’è essere una piemontese trapiantata in una grande città? Io ho un’esperienza simile da piemontese trapiantato a Milano mentre nel tuo caso si tratta di Roma. Entrambe le città hanno un forte fervore letterario. Come la vivi?

Pur essendo affezionata alle mie zone sono contenta di vivere a Roma, città in cui ho ricevuto un’ottima accoglienza: forse essendo piemontese di madre e tarantina di padre, il mio destino deve essere quello di vivere al centro! Mi definirò però totalmente trapiantata qui quando comincerò a scrivere storie ambientate in questi luoghi: per ora le location delle mie creazioni sono ancora torinesi, anche se Roma offre numerosi spunti che prima o poi compariranno nei miei scritti.

Ci regali qualche anticipazione sui tuoi prossimi lavori?

Sono scaramantica e in genere evito di rispondere a tale domanda, ma so che in molti si staranno chiedendo se Susanna tornerà. Ebbene sì, ma ci vuole pazienza.

E con questa grande news salutiamo Cristiana Astori consigliando Fuoriorario come un buon mezzo per attendere il suo prossimo romanzo.

 

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