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Leonardo Gori: vi presento Bruno Arcieri

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Leonardo Gori, fiorentino e laureato in farmacia, si è occupato a lungo di narrativa grafica e correlate forme espressive (illustrazione, cinema e disegno animato). Tra le sue passioni c’è la ricerca, lo studio e il collezionismo di fumetti, segnatamente del periodo tra la fine dell’ottocento e il 1950. Al riguardo, recentemente ha dato alle stampe il libro Eccetto Topolino: lo scontro culturale tra fascismo e fumetti, scritto assieme a Fabio Gadducci e Sergio Lama. In tema di narrativa gialla, è il creatore del capitano (poi colonnello) dei Carabinieri Bruno Arcieri.

Con lui parliamo di questo intrigante personaggio e del nuovo libro di cui è protagonista: Il ragazzo inglese (Edizioni Tea), candidato al Premio Scerbanenco.

Leonardo, Arcieri appare per la prima volta nel libro Nero di maggiopubblicato nel 2000 da Hobby & Work, come “spalla” del personaggio chiave, un gerarca senza nome che si muove nella Firenze del 1938 invasa dagli stendardi nazisti. Com’è avvenuta la sua metamorfosi da comprimario a protagonista indiscusso di una serie che ha toccato il secondo decennio di vita?

Nero di maggio non è stato cucito addosso a un personaggio seriale: è un romanzo a trama portante (plot driven), o per meglio dire basato sull’epoca in cui è ambientato, gli anni Trenta, e in particolare su un evento storico eccezionale. Nella prima stesura era emerso il personaggio del Gerarca senza nome – ma fortemente ispirato ad Alessandro Pavolini – mentre di Bruno Arcieri non c’era addirittura traccia. Il nostro capitano è frutto della seconda stesura, divenuta poi definitiva, quella uscita per Hobby & Work nel 2000, grazie a Luigi Bernardi e a Luigi Sanvito. Serviva, come dici tu, una sorta di spalla per il Gerarca…

Credo che al personaggio, inizialmente un po’ approssimativo, anche un po’ duro, ostico, abbia assai giovato non essere frutto di un progetto preciso. Mi spiego: il suo carattere, forse originale, certo un po’ atipico, si è rivelato strato dopo strato, nel corso dei romanzi successivi, quasi fosse davvero lui a raccontarsi, prima a me e poi ai lettori. L’imprevedibilità, che è la carta vincente di ogni narrazione, ha giocato a favore del suo carattere. Oggi Arcieri è assai più complesso che ai suoi esordi, e soprattutto io lo sento vivo e vero, in carne e ossa.

I libri di Arcieri seguono due filoni, alcuni sono ambientati negli anni trenta/quaranta del secolo scorso, altri nei successivi anni sessanta/settanta. Perché ti sei orientato su questi periodi storici?

Perché sono periodi di grande cambiamento, in senso ampio: politico, sociale, culturale. Nella seconda metà degli anni Trenta è nato il mondo contemporaneo, con – in nuce – la tecnologia che ancora adesso usiamo, i rapporti sociali, i mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, cinema, fumetti e anche televisione); il ruolo dominante e pervasivo, almeno fino a un paio di decenni fa, delle ideologie. Periodo che poi si conclude con la Seconda Guerra Mondiale, la più grande tragedia, per ora, nella storia dell’umanità. Qualcosa di simile, ma anche di profondamente diverso, è avvenuto alla fine degli anni Sessanta, l’epoca della rivoluzione giovanile, politica, sessuale e musicale.

I periodi di cambiamento drastico, le fini e i principi, servono da volano per esaltare le tensioni delle mie storie e le passioni dei personaggi: grandi bufere che io cerco in qualche modo di cavalcare. Inoltre sia gli anni Trenta che i Sessanta sono periodi di grande bellezza estetica: in entrambi i casi, le arti figurative, l’architettura, il cinema, il fumetto, la musica (pensa solo al Jazz prebellico e poi al Rock), hanno conosciuto grandi fermenti e raggiunto vette straordinarie, superando rivoluzioni formali e sostanziali che ne hanno scardinato e ricostruito l’intimo linguaggio. Quali migliori scenari da raccontare attraverso gli occhi di un uomo della strada, qual è Arcieri, nato nel 1902?

Con Il ragazzo inglese assistiamo a una sorta di saldatura tra i suddetti filoni, visto che il libro contiene due storie che si alternano e s’intersecano: quella che ha ispirato il titolo ambientata nell’aprile del 1940 due mesi prima dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale e la vicenda collegata al passato di Arcieri che si svolge tra Firenze e Reggio Emilia nel gennaio 1970. Da cosa è stata dettata questa scelta narrativa?

Dopo i primi romanzi, che erano sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro, ho iniziato a concatenare le vicende narrate. È quella che gli americani chiamano continuity. L’ho vissuto inizialmente come un gioco, poi ho capito che in quel modo riuscivo a raccontare il protagonista (e i comprimari più importanti) in modo molto più approfondito. Alla fine, fra flashback e ricordi di Arcieri, di Elena e di Nanette, ho dovuto per forza saldare in qualche modo i due periodi, gli anni Trenta e gli Anni Settanta, e l’occasione si è presentata con l’escamotage narrativo de L’ultima scelta e de La nave dei vintidue romanzi che sono collegati strettamente tra loro.

L’inizio del secondo si svolge un minuto dopo la conclusione del primo: Arcieri racconta a Marie un episodio del 1939, che è come un lunghissimo flashback. Il gioco è continuato con Il ragazzo inglese, in cui molti altri filiche legano tra loro gli anni di guerra e la fine dei Sessanta, si definiscono e si riannodano. Spero che i lettori si siano divertiti quanto me, a leggere in contemporanea, di un Arcieri vecchio che racconta le sue gesta da giovane, in pratica dialogando con sé stesso e mostrando al lettore che è cambiato, è divenuto per molti aspetti più consapevole e tollerante, in una parola migliore. Ma attenzione: i miei romanzi si possono leggere ignorando gli altri, partendo da un titolo qualsiasi. Sono tutti storie perfettamente compiute e indipendenti.

Ci potresti accennare qualcosa riguardo al conflitto interiore che dilania Arcieri, combattuto tra il suo dovere di ufficiale del SIM (Servizio di informazioni militari) e l’amore per Elena Contini?

Elena è una ragazza ebrea dell’alta società fiorentina, mentre Arcieri è un piccolo borghese, e già questo lo fa sentire a disagio: si sente un intruso, nel giro dei suoi amici, estraneo al loro modo di vivere e di sentire. È una situazione comune, sperimentata da molti. Ma dopo il 1938 e le infami leggi razziali, in Arcieri si aggiunge il senso di colpa, sempre più devastante, di essere un servitore dello Stato, come si diceva una volta, e quindi forzatamente anche del fascismo, pur senza condividerne affatto l’ideologia.

La sua coscienza politica, e la sua avversione al regime, matura definitivamente proprio in questo periodo. Per fortuna, Arcieri ha nel suo comandante (vagamente ispirato a una figura storica, quella del generale Amé, capo del SIM) un uomo che condivide molte delle sue idee. Il rapporto con Elena, come ho detto problematico già in partenza, come in molte storie vive di momenti esaltanti e di altri più difficili, e col tempo i secondi prevalgono sui primi. È la vita, e Arcieri è per me un uomo vero, come ho detto all’inizio.

Perché hai deciso di ambientare molti degli eventi narrati ne Il ragazzo inglese tra Firenze e Viareggio?

Firenze è la mia città, e nonostante Arcieri si muova spesso tra altri luoghi cari al mio cuore (Parigi e Milano, soprattutto, ma anche Roma), è protagonista amatissima dei miei ricordi, che cerco di travasare in quelli del personaggio. In particolare, Firenze – una certa Firenze ormai perduta per sempre – è raccontata nel Ragazzo inglese come se fosse lei stessa il personaggio principale. E l’ho fatto scegliendo la parte per il tutto, ovvero il quartiere di San Frediano, autentica città nella città, popolare e aristocratica, colta e volgare.

Viareggio è cara ai fiorentini come luogo di svago, città dei balocchi di collodiana memoria, mondo dei sogni e delle suggestioni, di carnevali felliniani e di presenze quasi medianiche, di Storia e di Letteratura. Con un rapporto che a volte, coi residenti, è un po’ di odio e amore. Era impossibile, per me e per Arcieri, non evocarla nei miei romanzi. Ritorna più volte, direi quasi in tutti i titoli, e a lei è dedicato tutto Musica nera, che si svolge nel 1967, l’anno della Summer Of Love.

Verso la fine del libro spunta il commissario Bordelli, personaggio nato dalla penna dello scrittore Marco Vichi, il quale ha a sua volta inserito Arcieri nella sua opera Fantasmi del passato ambientata nel 1967. Con Vichi hai anche scritto Bloody Mary. Si può parlare di un vero e proprio sodalizio letterario tra voi due?

Che bella definizione: direi proprio di sì. È un rapporto, quello tra me e Marco, di grande stima reciproca e soprattutto di amicizia. Abbiamo stili di scrittura diversissimi, eppure avviene il miracolo di un Arcieri che si è ambientato benissimo, con naturalezza, nelle pagine di Bordelli, e viceversa! Ma non è una cosa che riguarda solo me. A Firenze, grazie a Marco Vichi, è nato un vero e proprio cenacolo, con autori del calibro di Valerio Aiolli, Anna Falchi, Paolo Ciampi, che parlano tra loro delle rispettive storie, vere e inventate, si presentano l’un l’altro e soprattutto organizzano grandi cene e bevute, come gli artisti e i letterati di fine Ottocento. Ora tutto è sospeso, ma ci scriviamo via internet, in attesa che la bufera passi. 

Ho letto e mi sento di condividere che le storie che ruotano intorno alla figura di Arcieri non sono inquadrabili in un unico genere letterario, spaziando dal poliziesco, allo spionaggio, al thriller, al romanzo rosa e, come accade nell’ultimo, alla fantapolitica. Condividi questa considerazione?

Amo molto il genere. A tal punto che amo ogni genere letterario, e mi va di frequentarli tutti quanti! Così scrivo storie di spionaggio che sono molto gialle ma soprattutto noir, con robuste iniezioni di romanzo rosa. Forse è giunto il momento di abbattere ogni steccato: la narrativa popolare è cambiata, si è fatta anche colta, e avviene anche l’inverso, almeno dopo Sciascia, Eco e Fruttero & Lucentini.

Il nuovo romanzo-romanzo è proprio quello di Vichi, di Manzini, di Simi, di De Giovanni: è nelle loro pagine che si respira la vita vera e quindi la letteratura. Credo di non essere il solo a divertirmi con la commistione dei generi: d’altra parte scrivo per immagini, e nelle mie contaminazioni di linguaggio c’entra anche il Cinema, e soprattutto il Fumetto.

Dove trovi l’ispirazione per le tue storie?

Raccatto tutto dalle mie forsennate letture di saggi storici seri, dai ricordi dei racconti dei miei vecchi, da fotografie, memoriali, ultimamente anche da Internet. Ma è sempre, come dicono gli inglesi, metà ispirazione e metà traspirazione: le idee vengono scrivendo, mi piace partire da un’intuizione ancora vaga e imprecisa e iniziare subito a riempire di parole la pagina vuota. Le trame si formano in buona parte da sole, le scene si prendono per mano e il romanzo acquista una forma.

Ha detto Chandler, mi pare, che un buon romanzo è una collezione di belle sceneMolto spesso smonto tutto, riscrivo, taglio e incollo, spreco forse energie preziose, ma è in questo modo che il cuore della vicenda inizia a battere, e alla fine, miracolosamente, tutto si tiene: anche nelle mie storie, che sono per certi aspetti molto complesse.

Le avventure di Arcieri sono terminate o proseguiranno?

Mi auguro con tutto il cuore che proseguano. Arcieri mi dice che ha ancora tantissime storie da raccontarmi, e io non vedo l’ora di metterle in pagina. E poi c’è da raccontare cos’è successo nel lunghissimo periodo che va dal 1944 al 1966 Sarà un appassionante lavoraccio fare ordine tra tutti i ricordi, i flashback disseminati in ormai dieci romanzi.