E si finisce sempre per parlare del caro vecchio Hitch, quando la conversazione scivola sul cinema e i suoi Maestri. O quando ci si accinge a inaugurare una nuova rubrica, e si vuole andare sul sicuro.
François Truffaut scrisse il famoso libro-intervista Le cinéma selon Hitchcock per esplicitare la scelta di campo della nouvelle vague, di cui era massimo teorico e demiurgo, contro il “cinema di papà” della generazione postbellica, giudicato troppo letterario, formalista e freddo.
Il libro richiese un lustro di gestazione (1962-1967), tempo che il trentenne cineasta parigino si ritagliò tra le riprese di Jules et Jim, La calda amante e Fahrenheit 451, mentre il celebre coautore lavorava sui set di Gli uccelli, Marnie e Il sipario stappato.
I giovani turchi intransigenti e iconoclasti, cresciuti sulle poltroncine rosse della Cinématèque di Palais Chaillot e nella redazione dei Cahiers du Cinéma, furono fedeli all’insegnamento di Freud. Se l’erano presa con la generazione dei padri e avevano salvato quella dei nonni. Tributando un culto speciale a quel nonno.
Carta d’identità datata (era nato allo spirare dell’Ottocento), abbigliamento da impiegato della City, epitome vivente dell’ironico understatement proprio di chi, dalle altezze dell’upper class, assaporava le mirabilie dell’impero.
Tutto congiurava per farne un vittoriano sopravvissuto. Invece Alfred Hitchcock era il più moderno di tutti. La critica statunitense non l’aveva capito, ma Truffaut, Godard e gli altri giovani incendiari francesi, sì, alla grande. Perché sir Alfred, a partire dal 1925 col lungometraggio muto The Pleasure Garden, non aveva inventato il genere giallo, però l’aveva strappato alla mediocrità della serie B, quindi rielaborato, sublimato e promosso a opera d’arte. Dettando nuove regole.
Tra queste, il cosiddetto Mc Guffin, elemento convenzionale e pretestuoso sul quale far ruotare la trama: una busta piena di dollari, una borsa imbottita di esplosivo, uno scambio di persona.
La costruzione della suspence: lo scarto tra ciò che il protagonista del film sa, e ciò che invece è a conoscenza dello spettatore. L’uso drammaturgico dell’inquadratura: il volo radente dell’aereo in Intrigo Internazionale, le riprese in plongée per dare il senso della vertigine in La donna che visse due volte, la coincidenza tra macchina da presa e binocolo per suggerire il voyeurismo di James Stewart in Finestra su cortile.
L’uso del trucco artigiano e del dettaglio rivelatore: la lampadina accesa dentro il bicchiere di latte forse avvelenato che Cary Grant porta a Joan Fontaine in Il sospetto, il tic rovinoso del batterista assassino e perseguitato dai sensi di colpa in Giovane e innocente.
Ma soprattutto, a Truffaut piaceva che Hitchcock, come Roberto Rossellini e John Ford, altri totem dei Cahiers, fosse regista-autore, cioè colui che si assume la piena responsabilità di un film dall’idea iniziale fino al montaggio: scelta marcatrice del senso etico e della passione da cui soltanto dipende la qualità di un’opera.
Tutto questo si scontrava con la pratica della specializzazione tayloristica in vigore nelle majors di Hollywood allo scopo di massimizzare i profitti. E innescava un circuito virtuoso: il regista-autore conferisce l’esperienza personale a un intreccio, difficilmente s’accontenta e si ripete, inventa sempre qualcosa di nuovo.
In una parola, rischia. Hitchcock ha rischiato e sperimentato per tutta la vita, anche quando ormai era ricco e famoso, e poteva permettersi di rifare all’infinito lo stesso film. Ha scommesso sui soggetti e sulle tecniche di ripresa, si è messo in gioco. Di lui, all’interno di una coerenza monotematica senza uguali – il giallo -, non si ricordano due pellicole neppur lontanamente somiglianti, a parte i remakes. E si apprendono nuove lezioni di stile ad ogni rilettura.
Soffermiamoci, per esempio, sul film più celebre, Psycho (1960), in particolare sulla famosissima scena della doccia. Come sappiamo Marion (Janet Leigh), in fuga dopo aver rubato 40.000 dollari al datore di lavoro, si ferma in un motel isolato dove conosce Norman (Anthony Perkins), il bizzarro titolare, che la spia mentre si spoglia. Noi lo vediamo nell’azione di sbirciare, lei no, e sta qui la suspence. Marion va a farsi la doccia e viene massacrata da un assassino di cui si scorge solo l’ombra che brandisce un coltello. Come il killer misterioso, il regista fa a pezzi almeno due luoghi comuni.
A) In qualsiasi film il protagonista, e Marion lo è, resta in scena fino alla fine, per permettere allo spettatore di identificarsi, e solitamente beneficia dell’happy end. Qui muore dopo poco più di mezz’ora, e il pubblico resta spiazzato. Salvo riprendersi quando, dopo qualche minuto di impasse narrativa, il regista sposta l’attenzione sull’altro personaggio centrale (Norman).
B) Il film giallo, per statuto, spaventa. Quindi, secondo contratto stipulato con chi paga il biglietto, deve sottolineare l’atto di violenza – che di questo genere è elemento costituivo – e le sue conseguenze. Hitchcock non mostra e non sottolinea nulla, eppure ottiene l’effetto voluto, e rimanda tutti contenti a casa.
Ma come ci riesce? Prima di tutto, rifiuta l’ovvietà del technicolor e si affida alla fotografia di John L. Russell, un bianco e nero molto contrastato che di ogni personaggio rappresenta la silhouette piuttosto che la fisicità piena e pluridimensionale, espediente che accresce l’inquietudine in chi guarda. Poi sceglie di non rendere palese l’efferatezza che sostanzia la storia. Non la vediamo, possiamo solo sentirla, intuirla, apprezzarne la conclusione.
La sentiamo grazie alla colonna musicale di Bernard Herrmann, sapientemente dosata: violini distesi e armoniosamente premonitori mentre la ragazza siede al sécretaire e annota le spese sul taccuino, e poi entra nella toilette; silenzio nella fase iniziale del bagno, quando si ode solo lo scrosciare dell’acqua; ancora violini suonati su una corda sola, sonorità acutissima, nevrotica, un climax quasi intollerabile, da quando si affaccia l’assassino, per tutto il tempo dell’accanimento, e finché l’ombra non si dilegua; timbro grave dei violoncelli, accompagnamento tragico della perdita di coscienza della vittima; infine ancora assenza di suoni, solo il rumore dell’acqua che scorre via, insieme alla vita.
Lo intuiamo, il gesto omicida, attraverso un avvicendarsi di inquadrature (su storyboard di Saul Bass, il famoso titolista) che dura meno di tre minuti, in questo ordine: 1) l’erogatore della doccia aperto e ripreso dal basso; 2) Marion (d’ora in poi M.) si lava, rilassata, sorriso sulle labbra; 3) il tubo della doccia ripreso di lato; 4) l’ombra si avvicina minacciosa dietro la tenda della doccia; 5) l’ombra, massa scura e indecifrabile, giunta in primo piano, scosta la tenda e alza il coltello; 6) M. si volta e urla; 7) dettaglio della bocca di M. spalancata sull’orrore; 8) l’ombra vibra colpi violentissimi mentre M. cerca di difendersi; 9) M. grida inquadrata dall’alto; 10) il coltello cala ripetutamente e colpisce; 11) il coltello si sovrappone al ventre di M., senza che lo impatti; 12) il corpo nudo della ragazza rannicchiata per proteggersi; 13) il sangue fluisce in modica quantità sul fondo della vasca; 14) il killer ripreso di spalle, non più un’ombra indistinta, fugge dal bagno; 15) il primissimo piano di una mano della vittima che sembra volersi appigliare alle mattonelle; 16) il primo piano del volto di M., che, già esangue, spalle al muro, si accascia e scivola verso il fondo della vasca, e intanto protende una mano; 17) la stessa mano si aggrappa alla tenda e ne sgrana uno ad uno gli anelli; 18) di nuovo l’erogatore della doccia dal basso; 19) il sangue fluisce mischiato all’acqua verso lo scarico, in un vortice che va in senso antiorario.
La conclusione sta nel blocco di sequenze immediatamente successive: 20) dettaglio dell’occhio destro aperto di M., ormai morta, riversa su pavimento, e la mpd lo inquadra girando in senso orario; 21) il tubo della doccia, ancora aperta, visto di lato; 22) panoramica in direzione del comodino dove è appoggiato il giornale che reca la notizia del furto dei 40.000 dollari. E qui il regista, maestro di depistaggi, allo spettatore ne serve subito uno: omicidio per movente economico?
Spiega Hitchcock a Truffaut:
“Le riprese sono durate sette giorni e ci sono state settanta posizioni di macchina per quarantacinque secondi di film. Per questa scena mi avevano costruito un meraviglioso busto finto con il sangue che doveva sprizzare sotto le coltellate, ma non l’ho usato. Ho preferito utilizzare una ragazza, una modella nuda, che doppiava Janet Leigh. Di Janet si vedono solo le mani, le spalle e la testa. Tutto il resto è con la modella. Naturalmente il coltello non tocca mai il corpo, tutto è fatto col montaggio. Non si vede mai una parte tabù del corpo della donna, perché riprendevamo alcune inquadrature al rallentatore per evitare di avere i seni nell’immagine. Le inquadrature riprese al rallentatore non sono state poi accelerate perché il loro inserimento nel montaggio dà un’impressione di velocità normale”.
Quarantacinque secondi per rappresentare l’azione più cruenta che un essere umano possa compiere.
Esaltarne il senso e, insieme, smorzarne le epifanie attraverso la sottrazione di effetti, in luogo dell’accumulo. Così nasce la paura. Un procedimento ellittico tanto efficace non s’era mai visto: ignoto il movente (come è giusto in un giallo), ignoto l’assassino (ancora più giusto), meccanica dell’atto non esibita ma suggerita (niente lama che penetra la carne, niente sangue che fuoriesce, e questa è una novità), conseguenze mostrate parzialmente e senza compiacimento (solo il volto rimasto intatto, non il corpo martoriato, e anche questo è un inedito).
Il Codice Hays, che proibiva nei film scene di sesso e di violenza, viene pienamente rispettato.
Del delitto, il montaggio vorticoso di George Tomasini restituisce allo spettatore i gesti ieratici e convulsi d’un’incompiutezza iperrealista, che rimanda ai sacrifici umani arcaici. Stilizzazione pura. Genio. Caro vecchio Hitch, nelle serate d’inverno di chi altri dovremmo continuare a parlare?

Senese, storico del cinema con una tesi sulla cinematografia italiana ai tempi del fascismo. Scrittore e giornalista, è stato corrispondente de L’Unità e
direttore di varie testate. Si è guadagnato da vivere dirigendo uffici stampa. Negli anni ottanta ha curato mostre di maestri del fumetto come Jean Giraud, Milo Manara e Andrea Pazienza. Dagli anni novanta tiene corsi di divulgazione della cultura cinematografica. Con un gruppo di amici che condividono la sua passione si occupa della gestione di un cinema d’éssai.