La domanda è antica, la risposta forse mai del tutto pervenuta. Può un giallo essere delicato, addirittura gentile? Oppure, quando deprivato di alcune tinte basiche, il rosso del sangue, o il buio del noir, il giallo finisce per diventare qualcos’altro, una sorta di mero esercizio di sciarada narrativa, senza il proprio scheletro canonico, la suspense? La domanda è complessa, la risposta di più.
Partiamo comunque da un assunto: il giallo, in soldoni, non è altro che l’enigmistica applicata alla letteratura. Sintesi un po’ greve, senza dubbio, ma che apre le porte a mondi infiniti. In particolare, ammette il senso della domanda di cui sopra. Ciò premesso, da estimatore e apologeta del giallo soft, mi sentirei di affrontare con minor timidezza una mezza arringa in sua difesa, pur consapevole di appartenere a una cospicua minoranza.
Il giallo canonico presuppone certo una serie di archetipi inderogabili: almeno un delitto, e quindi un killer (che può diventare serial quando i cadaveri si moltiplichino e la mano omicida resti invece la stessa, meglio se con un motivo occulto per agire, che poi si rivelerà soltanto alla fine).
Le indagini e quindi almeno un investigatore, che può essere il commissario, magari da ritrovare in altre puntate della saga, ma anche un uomo qualunque che insegue la verità, spinto da un forte movente personale. Completano il quadro dei must qualche falsa pista, gli indizi, il momento in cui tutto sembra irrisolvibile, e la discesa verso l’epilogo.
Eccezioni? All’omicidio potremmo sostituire una scomparsa, o una violenza cui la vittima sia sopravvissuta, comunque un mistero, che la narrazione dovrà dipanare con chiarezza. Non c’è peggior giallo infatti di quello senza soluzione. E fin qui siamo tutti d’accordo. Ma veniamo al bivio.
Il giallo, premesso ciò, deve sempre includere per forza i dettagli di una morte, o di una violenza sessuale, lo splatter, il focus sulla lama o sul proiettile che attraversano le carni o la materia celebrale, le fasi crescenti di una violenza psicologica e dell’umiliazione della vittima, eccetera? E più li descrive in modo minuzioso, più è efficace? Può.
Senz’altro può. E il carico di pathos emotivo ha certo il vantaggio di trasportare il lettore sul duplice terreno dell’adrenalina e dell’indignazione, territori nei quali il suo desiderio di rivalsa e di giustizia lo faranno sentire molto più coinvolto di quanto sarebbe accaduto leggendo di un tizio che ruba i fiori da un giardino per portarli alla fidanzata.
Il meccanismo è ben sperimentato in gran parte delle più illustri sceneggiature in materia (Il silenzio degli Innocenti, per citare un capolavoro, o i thriller di Brian De Palma), di fronte alle quali l’obiettivo principe del narratore (catturare l’attenzione dello spettatore fino alla fine) è conseguito alla perfezione.
Ma uscire dallo schema classico, azzardare insomma un giallo delicato, è a mio avviso possibile, anche se più difficile. Non solo: è addirittura una sfida, un tentativo di uscita dagli schemi.
Non a caso ad avere centrato l’obiettivo sono soprattutto grandi maestri come Friedrich Dürrenmatt (Il sospetto – La promessa – La morte della Pizia), Agatha Christie (Dieci piccoli indiani, l’esempio più clamoroso) e molto spesso Georges Simenon.
Non si tratta, con la leggerezza sulle immagini, di negare la morte, la violenza, l’orrore. Ma la scelta di non indulgere in particolari inutili, non funzionali alla storia può addirittura, a mio avviso, dare un’aura impressionista al giallo che in alcuni casi gli giova.
Lasciando che il lettore si formi in autonomia le proprie immagini, o impressioni, anziché servirgliele preconfezionate. E resto dell’idea un po’ senile che ascoltare un pezzo ad occhi chiusi possa emozionare più che guardarne il video di accompagnamento.
La tesi non squalifica alcun modulo di giallo classico, beninteso. Ci sono capolavori sui quali non vale nemmeno la pena discutere. Ma continuo a ritenere che dovremmo dare altrettanta dignità al giallo che sceglie di essere tale, pur puntando più sulle sottili dinamiche aeree del thriller, quelle invisibili, che sulle immagini choc.
Sono due scuole di pensiero, per definizione antitetiche. Ma fatico a certificare che una prevalga davvero in modo netto sull’altra.

Nato a Premosello (VB) nel 1961. Vive a Milano, dove si occupa di temi sociali, immigrazione, diritti umani. Il 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino, è stato assunto dal quotidiano «Il Giorno» dove ancora oggi lavora. Con Il pesce elettrico, suo romanzo d’esordio poi ristampato nel 2002, ha vinto il Premio Stresa 1996 e il premio Festival del Primo romanzo, al Salone del libro di Torino 1997. Ha pubblicato anche per E/L e Utet e realizzato reportage da Paesi in guerra all’estero, tra cui Iraq e Afghanistan. Nel 2020 è uscito il suo secondo romanzo, L’arte sconosciuta del volo (Giunti Editore), finalista al Premio Giallo Garda 2020.