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Rapina a mano armata, il giallo che rivelò il genio di Kubrick

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Domanda delle cento pistole, visto che di gialli stiamo parlando: chi è il regista cinematografico più di ogni altro sfuggente a una classificazione? Il più eclettico, innovatore, sorprendente, anticonvenzionale, sperimentatore? Il meno riconducibile ai luoghi comuni che identificano l’appartenenza di un film a una categoria? Risposta facile: Stanley Kubrick.

A lui dobbiamo le rivisitazioni di tanti generi classici: storico (Spartacus), bellico (Paura e desiderio, Orizzonti di gloria e Full Metal Jacket), letterario (Barry Lindon), fantascientifico (2001 Odissea nello spazio), thriller (Shining), drammatico-sociale (Arancia meccanica), erotico (Lolita), psicologico (Eyes Wide Shut), giallo (Il bacio dell’assassino e Rapina a mano armata, eloquenti fin dai titoli). Tutti lungometraggi che, prendendo le mosse dagli elementi costitutivi di un plot (progetto di un colpo milionario, rivolta di schiavi nel mondo romano, spaccato di società britannica settecentesca, prima guerra mondiale, conflitto nel Vietnam, conquista dello spazio, crisi coniugale, passione senile, banda criminale giovanile, situazione claustrofobica incubatrice di violenza), prendono il largo, accumulano variazioni sul tema inedite e imprevedibili, arrivano a destinazione lasciando lo spettatore spossato e riconoscente davanti a tanta energia creativa.

Kubrick in 46 anni di attività ha firmato solo tredici film, che gli hanno procurato per ben tredici volte la candidatura al premio Oscar. Ne ha vinto uno solo, per gli effetti speciali di 2001, mentre nel 1997 gli è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. Non si tratta così un genio. Ma le sue opere sono tutti capolavori, hanno accompagnato la crescita di due o tre generazioni, alcune immagini sono divenute icone indimenticabili, riprodotte da poster nelle camerette di milioni di adolescenti – basti pensare alle astronavi di 2001, al ghigno minaccioso di Jack Nicholson in Shining, al look da banda giovanile di Alex e i suoi amici in Arancia meccanica.

Kubrick ha esplorato tutta la gamma delle possibilità espressive proprie del mezzo cinematografico; inventore di immagini cangiante, mai banale, mai ripetitivo, diverso film dopo film, eppure sempre coerente. Popolare e al tempo stesso raffinato, semplice e tuttavia complesso, ha reinventato i generi classici riscrivendo le regole della rappresentazione e regalando sequenze di straordinaria efficacia visiva. Ha saputo porre interrogativi profondi sul futuro della nostra società e sul destino di ogni individuo. E’ stato, in un certo senso, un cineasta-filosofo, portatore di una concezione del cinema come veicolo di pensiero. Ma è stato anche un grande metteur en scène, espressione che indica la qualità di chi riesce ad organizzare al meglio lo spazio davanti all’occhio della macchina da presa e quindi tutto il processo per cui, dalle parole scritte in una sceneggiatura,  l’opera è portata a vivere sul set.

Naturalmente ha avuto i suoi punti di riferimento. Scrive Sandro Bernardi (Stanley Kubrick, in Enciclopedia del Cinema Treccani): “Ha preso da Charles Chaplin il senso della comicità, da Sergej M.Ejzenštejn  l’atteggiamento di riflessione critica, da Max Ophuls la malinconia e la propensione all’uso del metalinguaggio”, vale a dire l’uso che il cinema fa del suo linguaggio specifico per riflettere sui propri meccanismi, mostrare cosa c’è dietro la macchina da presa, scoprire l’inganno, smascherare le apparenze. Vedi Effetto notte di Francois  Truffaut, in particolare l’avvolgente piano sequenza iniziale.

Kubrick ha preso quasi sempre  le mosse da romanzi o racconti, spesso di autori famosi come W.M. Thackeray, A. Schnitzler, V.V. Nabokov o A.Ch. Clarke, ma ha avuto un suo stile personale, in equilibrio fra la ricerca d’avanguardia e le forme spettacolari. A livello formale si è affidato alle nuove tecnologie (vedi i “trucchi” di 2001, vedi le lenti speciali utilizzate in Barry Lindon), e, a livello di intreccio, ha inventato nuovi modelli narrativi e metanarrativi. Si può parlare di metanarrazione (detta anche narrazione o racconto di secondo grado) quando, all’interno di un testo, viene raccontata una storia dentro la storia stessa; più semplicemente, è un racconto nel racconto. In di Federico Fellini, che narra la tormentata realizzazione di un film rinchiuso nella mente del suo creatore, il tema del “film dentro il film” serve da escamotage per dare forma alle fantasie, ai sogni e ai ricordi del regista, facendo sì che realtà e fantasia si confondano progressivamente, fino ad arrivare a fondersi completamente nel finale. E’ più o meno quanto accade in Paura e desiderio, Arancia meccanica, Dottor Stranamore, Eyes Wide Shut. Kubrick costruisce sempre un doppio livello di rappresentazione, uno spettacolo nello spettacolo: elabora grandi messe in scena per esaminarle poi con atteggiamento distaccato, come un narratore-osservatore che non partecipi né alla storia né alla vita dei personaggi ma li studi offrendoli alle platee con la freddezza dello scienziato.E producendo l’ossimoro del ghiacchio bollente, perché non è certo un effetto di algido distanziamento che il regista comunica allo spettatore, il quale anzi si appassiona e si lascia trascinare dal gioco, basti pensare alle centinaia di interpretazioni del vero significato di 2001 che da oltre mezzo secolo continuano a inseguirsi, su libri, riviste, convegni, chat dedicate sui social. 

Ancora Bernardi: “L’intera sua opera può essere letta come una riflessione storico-culturale sul mondo occidentale, realizzata attraverso storie esasperate e metaforiche nelle quali vengono in luce le contraddizioni dell’uomo contemporaneo. Per Kubrick la società illuminista e sedicente liberale, apparentemente tollerante, democratica, pacifista e costruttiva, è in realtà totalitaria, aggressiva, distruttiva e autodistruttiva”. Kubrick era un uomo di sentimenti liberal, nelle rare interviste concesse si dichiarava fiducioso nel progresso dell’umanità, ma a suo parere il percorso verso una società finalmente giusta non si è mai concluso, e chissà se mai si concluderà. I suoi film ci dicono che era in sostanza un razionalista tendenzialmente pessimista (vedi in particolare Orizzonti di gloria, Lolita, Arancia Meccanica),pensiero non certo in contrasto con la difesa al limite  del paranoico che volle condurre nei confronti della sua vita privata.

Newyorchese, scacchista professionista a quindici anni, fotografo per la rivista Looka diciassette, studente di cinema a diciannove, dopo un rapido apprendistato, alcuni cortometraggi e un primo film quasi clandestino, Kubrick approda al successo con un  giallo: Rapina a mano armata (The Killing, 1956), sceneggiatura dello stesso Kubrick e di Jim Thompson dal soggetto di Lionel White autore del romanzo omonimo che ha ispirato la pellicola, interpreti principali Sterling Hayden e Coleen Gray, fotografia di Lucien Ballard.

Johnny  Clay (Sterling Hayden),  malvivente  da poco uscito di prigione, prepara una rapina insieme a  quattro complici  da strapazzo: un cassiere tradito dalla moglie, un barista, un pensionato, un  poliziotto  pieno  di  debiti.  Si tratta  di rapinare la cassaforte di un ippodromo prima che  vengano  pagate  le  vincite. Sono due milioni di dollari.  Clay assolda altri  due  complici,  un  lottatore  che deve provocare  una  rissa  per  tenere  occupati  i poliziotti, e un tiratore scelto, un cecchino che colpisca con il fucile il cavallo favorito della corsa, per  creare  panico  e  favorire  così  il colpo.  Il piano  sembra  perfetto  e  oltre  tutto Clay resta senza complici con cui dividere il bottino, perché all’ippodromo, proprio all’ultimo momento, si presenta l’amante della moglie del cassiere che si mette a sparare per uccidere il cassiere stesso, il quale risponde al fuoco.  Ne  nasce  una  sparatoria in  cui  tutti  i complici  muoiono.  Clay  fugge  con Fay (Coleen Gray), la  sua ragazza, e i soldi, e arrivano all’aeroporto, ma quando  stanno  per  salire sull’aereo  un cagnolino  taglia  la  strada  al trenino  dei bagagli,  la  valigia  con  i  dollari  si apre  in mezzo  alla  pista  e, beffa atroce, i  biglietti  si sparpagliano nella  notte. 

Il film è diviso strutturalmente in due parti: la prima, che copre tre quarti della durata, consiste nella lunga preparazione della rapina; la seconda parte, un quarto, è dedicata all’attuazione, e il climax  è via via più incalzante. E’, per il tema che tratta, fortemente drammatico, basti pensare alle numerose morti violente che annovera alla fine, ma presenta due registri stilistici contrastanti: una prima parte quasi grottesca, un filo bizzarra, suggerita dal profilo dei complici di Johnny, dei falliti assolutamente incompetenti e inadeguati all’impresa,  e dalle traversie amorose del cassiere; una seconda parte dura, violenta, sanguinosa, che irrompe all’improvviso, perfino inaspettata nonostante l’effetto caricamento dell’attesa. L’intreccio non ha cali di tensione, è fortemente ritmato, i personaggi sono incisivi, non si dimenticano, il progetto criminale è descritto minuziosamente dal commento fuoricampo e da didascalie, con una precisione tecnica – gli orari del piano, i singoli movimenti – che sottende lo scarto ironico. Un esempio è dato dalla voce off, atona, non coinvolta nell’affaire, un espediente che richiama l’onniscienza dell’io narrante in letteratura. Ecco la frase iniziale: “Alle 15,45 esatte di quel sabato dell’ultima settimana di settembre, Marvin Unger era forse l’unica tra le centomila persone presenti all’ippodromo a non provare alcuna emozione per la quinta corsa in programma. I cavalli non lo interessavano e tanto meno lo scommetterci dei soldi sopra. Ma comunque aveva puntato cinque dollari su ogni iscritto. Certo, si rendeva conto che con un simile sistema sarebbe stato  difficile chiudere in vincita, ma non gliene importava. Dopo tutto, si diceva, che cosa era la perdita di venti o trenta dollari in confronto all’enorme somma di denaro veramente in gioco?”.

Poche parole per accennare un ritratto psicologico, e per annunciare il nocciuolo drammatico della storia. Ma il tono suggerisce la distanza, l’assenza di immedesimazione. E non è questo il solo segno. Per quanto ne sappiamo, vediamo qui per la prima volta un rapinatore travisato con una maschera allo scopo di non farsi riconoscere, spunto preso sicuramente dalle cronache, ma che al regista serve, anche in questo caso, per conferire un contrappunto quasi sarcastico al pathos del contesto.

Profondamente innovativa è soprattutto la struttura del racconto. Rapina a mano armata, come  il precedente Il bacio dell’assassino, è  una  specie  di  puzzle che  Kubrick offre  allo  spettatore  perché  lo ricomponga. Un gioco di combinazioni perfette, senza vuoti, senza errori in fase di sceneggiatura e senza incongruenze, spesso frequenti in opere analoghe. Osserva Enrico Ghezzi in Stanley Kubrick, Nuova Italia; “Il film (…) è la messa in scena di giochi che si incastrano, un documentario “realistico” sui congegni – gratuiti ma non per questo meno logici – di essi. Vediamo come si realizza questo chiarissimo progetto, che sembra contrastare con la sostanza di genere del film, e con le stesse emozioni della visione”.

Proprio per emozionare lo spettatore, in parallelo e in conflitto  con l’imperturbabile descrizione del meccanismo criminale, il regista introduce una novità assoluta: il flashback sincronico. L’idea gli viene dal libro al quale si è ispirato, Clean break di Lionel Withe, nel quale  la vicenda non segue un filo cronologico lineare ma è ripetuta, ritorna sugli stessi avvenimenti della rapina più volte a seconda del personaggio che li descrive e che quindi dà di uno stesso episodio un suo personale punto di vista, un po’ come accade nel famoso Rashomon di Akira Kurosawa. Fino ad allora il cinema conosceva già la tecnica del flashback, utilizzato però semplicemente per inserire nella narrazione presente un episodio passato. Con il flashback sincronico lo spettatore rivive più volte una stessa scena osservando azioni che si svolgono in contemporanea e che una descrizione lineare rischierebbe di non sottolineare a sufficienza. La strage, invece,  culmine drammatico ed evento centrale,  pur dando il titolo al film (The killing, in italiano appunto “La strage”) si risolve in un attimo, capiamo cosa è accaduto solo dalla rapida visione dei corpi inanimati al suolo.

Il tocco di Kubrick, al quale ci abitueremo nei film successivi, si nota nell’amore per i dettagli. Le prime inquadrature, mentre scorrono i titoli di testa, illustrano la preparazione  dei cavalli nell’ippodromo, in vista delle corsa. Il cassiere Cook, tornato a casa insanguinato  dopo lo scontro con l’amante della moglie, scosso dall’indifferenza di lei, le spara e la uccide, quindi crolla a terra col volto in primissimo piano, addosso alla gabbia del canarino. La scena della strage è rapidissima, descritta senza alcuna sottolineatura, del tutto  priva di compiacimento: una sparatoria violentissima, due inquadrature appena e poi la carrellata sui corpi accatastati.

La fotografia, in bianco e nero, è netta, contrastata. Il gusto della composizione fotograficamente corretta presente nelle prime prove del regista, che proprio con gli scatti per Look aveva iniziato la carriera, ormai è un ricordo. Prevalgono la plasticità delle figure, il movimento, il ritmo del montaggio, alle cui problematiche Kubrick comincia  ad appassionarsi.

Ecco cosa disse il regista in proposito: “Credo di amare soprattutto il montaggio. E’ la cosa più vicina all’idea di un ‘luogo’ in cui fare del lavoro creativo. Il set di un film è forse il peggior posto che sia mai stato approntato, per fare un lavoro creativo. Le riprese sono la parte della realizzazione che amo di meno. Non mi piace tanto lavorare con molte persone, non sono proprio un estroverso. Ci si alza troppo presto, si va a letto troppo tardi, poi c’è troppa gente, la confusione, spesso il disagio fisico. In fase di montaggio la mia identità si trasforma in quella di un montatore. Non mi interessa a questo punto quanto può essere stato difficile girare una certa scena, quanto è costata ecc. Lavoro sette giorni alla settimana, all’inizio dieci ore al giorno, e poi avvicinandosi le scadenze fissate anche dodici o quattordici. Scherzando potrei dire che tutt0 quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare” (da Ghezzi, opera citata).

Kubrick dunque non ama troppo il lavoro sul set, ma c’è già una certa sicurezza nella regia e nella conduzione  degli  attori,  ci  sono  citazioni intelligenti   di   film noir precedenti. In particolare  Giungla d’asfalto di John Houston, in cui il protagonista (ancora Hayden) muore sull’erba, annusato dai cavalli, e sembra finire dove inizia Rapina a mano armata; e poi Il tesoro della Sierra Madre  dello stesso  Houston, e Il grande sonno  di Howard Hawks.

Il regista smonta definitivamente le tipologie del gangster movie, mostrando dietro la figura mitizzata del bandito l’esistenza di uomini del tutto comuni, brutali, stupidi, incapaci o malinconici; ma sarà proprio il più esperto e abile di tutti, Clay, a fallire dopo essere arrivato a un passo dal successo; e particolarmente  intrigante è la singolare forma narrativa usata, che, spostandosi continuamente nel tempo, intrecciando e invertendo l’ordine cronologico degli eventi, mette a nudo i procedimenti tradizionali della suspense, in modo che lo spettatore si soffermi più sull’atto del narrare che sulla storia raccontata. Rapina a mano armata è quindi, oltre che un film di genere gangster, anche un film di riflessione sugli stilemi del genere gangster. Ed è indubbiamente la storia di una sofferenza compulsiva, che riassume in sé tutto il senso di un’esistenza, che catalizza tutti i desideri: una ossessione molto comune, l’ossessione per il denaro.

Finale beffardo per un film drammatico. Le banconote tanto desiderate, per un banale inconveniente, una falla  imprevedibile nel congegno, volano via, si disperdono nel vento. Il tema non è una novità, era già presente ne Il tesoro della Sierra madre di Huston (1948), e in Operazione Cicero di Joseph Mankiewitz (1952). Ritornerà nell’italiano Operazione San Gennaro di Dino Risi (1966). Ma la variante al tema cesellata da Kubrick è di gran lunga la più elegante e significativa, mescolando il sarcasmo della derisione e il dolore della sconfitta.

Vediamo proprio il finale di Rapina a mano armata, una ineluttabile discesa agli inferi che dura appena cinque minuti e quaranta, in un gioco di montaggio rapido ma non convulso, chiaro e lineare. Clay, dopo la rapina, ha riempito una grossa valigia di bigliettoni e la porta con sé. Pensa di partire dall’aeroporto, insieme a Fay, con un volo verso Boston.

  • Fay si aggira nervosamente nella sala d’aspetto dell’aeroporto. Un inserviente, in secondo piano, la guarda con malcelato interesse.
  • Fay vede Clay che sta arrivando, dietro la porta a vetri; gli corre incontro, lo abbraccia, si avviano insieme verso il check-in.
  • Una signora anziana espleta le pratiche del check-in tenendo in braccio un barboncino che vezzeggia in maniera ridicola.
  • Ripresi in figura intera, Clay e Fay sono davanti all’impiegato del check-in; lui mostra i biglietti d’imbarco e la valigia chiedendo di poterla portare in aereo come bagaglio a mano; l’addetto obietta che è troppo grande e va collocata nella stiva; Clay teme di perderne il controllo e insiste; l’addetto chiama il responsabile, che propone il pagamento di un’ulteriore metà ticket per poter sistemare il bagaglio accanto alla poltrona; Clay desiste e lascia la valigia all’addetto.
  • La macchina da presa inquadra da dietro la valigia che scorre sul nastro
  • Un carrello ha preso in carico la valigia e gli altri bagagli, e parte in direzione dell’aereo.
  • I viaggiatori stanno in fila in attesa di salire. La signora del barboncino continua a parlare col suo animale mentre gli altri passeggeri la osservano divertiti.
  • L’aereo compie i suoi giri sulla pista, quindi si ferma.
  • Clay e Fay, in primo piano, stanno in disparte, dietro una rete di recinzione; hanno uno sguardo ansioso, lui quasi presago.
  • Il carrello, con la valigia di Clay in primo piano, non legata alle altre e in precario equilibrio, si avvicina all’aereo.
  • Il barboncino sfugge al controllo della signora e si lancia sulla pista, all’inseguimento del carrello.
  • Il pilota del carrello sterza per non investire il cane; la valigia di Clay cade a terra, si apre e le banconote volano nel vento, in uno scenografico turbinio.
  • Clay e Fay, in primo piano, hanno un’espressione basita. Lei lo prende sottobraccio e lo trascina via.
  • La signora, rincuorata, recupera il barboncino.
  • Clay e Fay, sgomenti, si dirigono rapidamente verso l’uscita dell’aeroporto. Da questo momento un commento musicale incalzante, tutto ottoni e percussioni, sottolinea la drammaticità della situazione. Oltrepassano l’addetto del check-in, che, sorpreso, li avvisa che l’aereo sta per partire; l’addetto riceve una telefonata che evidentemente lo avverte dell’incidente.
  • La coppia ha l’espressione turbata, due poliziotti se ne accorgono.
  • Clay e Fay, ripresi di spalle, escono dalla porta a vetri, lui è curvo, incerto nella postura, lei sembra guidarlo, e chiama un taxi.
  • Fay si volta, Clay la imita, vedono l’addetto al check-in che si avvicina ai poliziotti, li avvisa e indica loro i due che sono sul punto di andarsene.
  • In primo piano, Fay dice a Clay: “Dobbiamo scappare!”. Lui, con gli occhi bassi, rassegnato. “No, a che vale, ormai…”.
  • Punto di vista della coppia: i poliziotti si avvicinano lentamente, armi in pugno. Su questa immagine scorre la parola ‘Fine’.

Il film non incassò molto ma colpì favorevolmente  la  critica  per la sua originalità: alcuni critici salutarono addirittura Kubrick come il nuovo Orson Welles; di sicuro al suo primo primo tentativo di film noir, il grande newyorchese (che più tardi sceglierà Londra come patria di adozione) inserì la sua opera tra i classici del genere. Rapina a mano armata è la pietra angolare nella costruzione di un mito che non accenna a tramontare.

 

BIBLIOGRAFIA  ESSENZIALE
Sergio Toffetti, Stanley Kubrick, Milano 1978 (fino ad Arancia meccanica compresa).
Sandro Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Milano 2000.
Roberto Curti, Rapina  a mano armata, Torino 2007.
Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Milano 2007.