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Scrivere di musica e scrivere con la musica (in cuffia)

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Musica e romanzi. Due modi di raccontare diversi, con proprie regole, una storia. Anche la musica, soprattutto quella esclusivamente strumentale, racconta una storia. E molto spesso, quando si mette in musica un testo sacro, ci si trova di fronte ad una narrazione profonda che è il frutto del sentire di un’epoca, di un vissuto interiore personale.

Ci ripensavo, proprio nelle scorse settimane, quando rivedevo e ascoltavo la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi nell’interpretazione dell’orchestra e coro del Teatro alla Scala diretti da Riccardo Chailly nel Duomo di Milano.

Quel dramma esistenziale, quel senso di rabbia e sconcerto di fronte alla morte, emerge in modo sconvolgente dalle pagine verdiane, al punto tale che il testo liturgico latino non risulta più essere funzionale alla liturgia cattolica, ma ne travalica i limiti, si trasforma letteralmente in una meditazione sulla morte e sul senso della vita.

Il problema che ho invece vissuto all’ascolto era un altro: l’acustica del Duomo di Milano, assolutamente inadatta alla Messa da Requiem di Verdi (originariamente composta dall’autore, non a caso, per la Basilica di San Marco a Milano, ben più compatta e dall’acustica meno incline alle rarefazioni prolungate ad eco del suono), con conseguente dilatazione dei tempi, delibazione delle atmosfere e soprattutto, da parte del direttore, una grandissima attenzione alle dinamiche strumentali e vocali.

A questo punto, vi domanderete cosa c’entra tutto questo con la scrittura? C’entra, assolutamente.

Perché se ci si deve accostare alla musica, come riferimento per una narrazione, bisogna averne un grande rispetto e attenzione. Sia che si tratti di scrivere un romanzo ambientato nel mondo della musica, sia che vogliate servirvi semplicemente di una soundtrack di sottofondo, necessaria per le fasi di stesura.

Ci sono tantissimi romanzi che prendono spunto dalla musica, e che raccontano di musica: penso ad esempio al Dottor Faustus di Thomas Mann (che, di recente, è stato ripubblicato da Mondadori negli Oscar in una recente traduzione – originariamente commissionata per i Meridiani -, visto che quella precedente mostrava, ahimé, tutti i suoi anni).

Ma è anche vero che la conoscenza di un determinato tipo di contesto musicale, di qualunque tipo, che si tratti di un gruppo rock, di un’orchestra giovanile, o di un teatro d’opera, debba essere ben posseduta, in termini di conoscibilità degli elementi informativi, se proprio ci si vuole cimentare in un romanzo ambientato in quel determinato tipo di mondo.

Per fare un esempio recente, mi ha molto colpito, in senso positivo, il romanzo noir Il delitto di via Filodrammatici di Emiliano Bezzon (Fratelli Frilli Editori).

La storia prende spunto da un delitto all’interno degli uffici dirigenziali della Fondazione Teatro alla Scala, e l’autore (che peraltro proviene, come me, dal mondo della pubblica amministrazione locale; attualmente è il Comandante della Polizia Locale di Torino, ed è pure autore di saggi e manuali per le polizie locali) riesce a ben ricostruire l’ambiente meneghino, con le trame nascoste, gli aspetti relazionali del rapporto tra il Comune di Milano e la Scala, le piccole e medie meschinerie, il mondo della borghesia milanese, e soprattutto il clima dei retroscena del vissuto alla Scala. E tutto questo l’autore lo racconta con un senso di verosimiglianza tale da rendere la storia assolutamente credibile.

Eppure la vicenda è totalmente di pura invenzione, non c’è nemmeno un episodio di cronaca, avvenuto altrove, che possa aver rappresentato lo spunto di origine dal quale l’autore avrebbe potuto cogliere l’occasione per svilupparlo in una struttura narrativa efficace. Ma un’idea di base c’era, eccome: l’inedito di Giuseppe Verdi.

Sono anni, infatti, che si vocifera a proposito di un’opera lirica inedita del cigno di Busseto, tratta dal Re Lear di Shakespeare, e in effetti esistono diversi studi preparatori, rinvenuti negli archivi, solo che alla fine Verdi abbandonò il progetto e si dedicò ad altro.

Ecco, da quell’idea, Bezzon riesce a mettere in scena un romanzo credibile, corposo, strutturato, coinvolgente e soprattutto che racchiude in sé l’atmosfera della vita milanese passata tra Palazzo Marino e il Teatro alla Scala. E qui, proprio da questo libro, trovo uno spunto interessante e da suggerire per gli aspiranti scrittori: in tutto il romanzo non troverete mai citazioni di direttori e/o cantanti veri, né di registi.

Eppure di materiale ce n’era in abbondanza: l’autore avrebbe potuto citare Antonino Votto, Tullio Serafin, Claudio Abbado, Riccardo Muti, e così via. O cantanti che hanno fatto la storia della Scala, come la Callas, la Freni, e così via. Ma avrebbe commesso il rischio di storicizzare la narrazione, di rendere il romanzo troppo ancorato ad un’epoca ben precisa e, nell’arco di pochi anni di distanza dalla pubblicazione, di vederlo fin troppo datato, sintomo di una determinata epoca storica.

Il lettore, difatti, specialmente quello competente e preparato, sa capire al volo a quale periodo il romanzo potrebbe riferirsi, e capirebbe al volo le annualità presunte di riferimento. E le menzioni di specifici agganci potrebbero risultare, alla lunga, pericolose. Ecco perché, appunto, Bezzon volutamente non le inserisce.

Così, questo romanzo noir non solo risulterà gradevole agli occhi e al gusto del lettore avveduto, ma soprattutto – anche a distanza di parecchi anni dalla sua pubblicazione – risulterà pur sempre valido, attuale, e meritevole di essere letto.

Quindi, ricapitolando: è essenziale, anzi, fondamentale, quando in un romanzo ci si sofferma attorno ad un determinato ambiente come quello del mondo della musica (un conservatorio, una sala prove, un sistema come quello delle tournée concertistiche, un festival musicale), occorre conoscerne gli elementi generali, le regole interne che lo disciplinano, almeno quelle principali, ma è necessario saper narrare quel mondo in modo completamente inventato, ma sapendolo rendere nel modo più credibile possibile.

Si tratta, in fin dei conti, di ricreare un universo narrativo autonomo, inventato, ma nel contempo veritiero, e a mano a mano che il percorso di narrazione si sviluppa, ci accorgeremo che alla fine quel mondo nato dalla nostra fantasia può vivere in modo a se stante, e soprattutto – se ben strutturato – potrà apparire credibile e fintamente autentico agli occhi e ai gusti del lettore.

Diverso è invece il caso dell’uso della musica, mentre si scrive.

Ogni tanto sento parlare di autori che scrivono da soli, in cucina, col pc portatile, nel silenzio. Ma anche di tanti altri che, cuffia nelle orecchie, si mettono al lavoro e, per mezz’ora, un’ora, un’ora e mezza, riprendono il testo, e con la musica sullo sfondo vanno avanti a ritmo continuo.

Non a caso, se date un’occhiata ai titoli di coda, pardon, ai ringraziamenti conclusivi dei romanzi di alcuni autori (ne cito tre: Antonella Boralevi, Anna Premoli e Matteo Strukul), scoprirete che essi menzionano addirittura i brani utilizzati in fase di stesura, se non perfino le playlist.

Ho citato, non a caso, tre autori diversissimi tra loro, in termini di generi di narrativa: ma ognuno di essi si avvale di apposite soundtrack per scrivere, per non sentire il ticchettio dei tasti del pc portatile, per non ascoltare il rumore di fondo della stanza, per sentirsi concentrati nel percorso di narrazione. E va dato atto della loro sincerità, perché hanno accettato di far condividere ai propri lettori quali sono state le musiche che li hanno guidati durante la fase di stesura dei romanzi che hanno appena finito di leggere.

Certo, ci sono anche le fasi di revisione, rilettura, perfezionamenti, rifiniture, dell’editing personale, poi di quello condiviso con la casa editrice. Ma quando si scrive, si ricrea un mondo parallelo a quello reale, e la musica in cuffia ci accompagna, pagina dopo pagina, scena dopo scena, e tutto si ricrea con una rapidità e una spontaneità che mai avremmo immaginato.

Naturalmente, e qui mi riferisco all’esperienza personale, cerco sempre di scegliere musiche appropriate, con riferimento a specifiche scene da scrivere: ad esempio, quando devo affrontare una scena romantica e totalmente sensuale, ricorro quasi sempre al buon caro Felix Bartholdy Mendelssohn e alle sue Romanze senza parole per pianoforte (consiglio, a tal fine, la meravigliosa edizione integrale realizzata da Daniel Barenboim (due cd DG) oppure la selezione mirabile effettuata da Murray Perahia nel suo album “Songs without words” (cd Sony Classical).

Ma se ci sono scene incalzanti, senza respiro, cerco sempre i concerti integrali dal vivo di gruppi rock oppure gli album di alternative rock o hard rock.

Nel corso della stesura dei romanzi del ciclo Martielli-Croce, che inizia con Il venditore di bibite, ho letteralmente consumato l’intera discografia dei Muse, come pure i loro concerti in video (ma questo vale anche per gli album più recenti dei Deep Purple, nella formazione con Steve Morse e Don Airey).

Più di recente, tuttavia, ho scoperto quell’autentica miniera d’oro di ispirazione che è il compositore tedesco naturalizzato americano Hans Zimmer: di questo che è ormai ritenuto, a livello mondiale, l’erede naturale di Ennio Morricone (quest’ultimo lo ha elogiato in modo notevole nel recente libro intervista di Giuseppe Tornatore, edito da Harper Collins), consiglio due compendi essenziali, e cioè il Live in Prague (due cd Eagle Rock o il video) e soprattutto The World of Hans Zimmer, realizzato alla Konzerthaus di Vienna con la ORF Sinfonieorchester nel dicembre 2018 (due cd Sony Classical).

Mi sono avvalso di questi album in un modo davvero continuo, come pure delle colonne sonore integrali della trilogia The Dark Knight di Christopher Nolan, perché proprio in questo modo sono riuscito a dimenticare la fatica, la stanchezza della giornata lavorativa, specialmente nelle ore serali, riuscendo a macinare pagine su pagine, a rispettare i tempi previsti nel mio personale scadenziario, e soprattutto a mantenere un forte ritmo di scrittura.

L’esperienza passata del giornalismo, fatta di migliaia di battute testo occorrenti per ogni scena, mi ha aiutato e mi aiuta a restare concentrato dentro le barriere della progettazione preliminare effettuata in sede di scaletta del romanzo, e nel contempo ad espandere la creatività, a creare un mondo parallelo, fatto di storie, personaggi, protagonisti, antagonisti, dell’immancabile mentore, della variabile impazzita, spesso determinata dall’amore, nonché a cogliere gli spunti dal reale, dai caratteri, dagli sguardi, dalle battute di questa o quella persona raccolte pochi giorni prima, e che ci sono rimaste in mente.

Ecco, l’ascolto persistente della musica, quando scrivo, crea strani effetti. E in piena concentrazione, quasi senza che ce ne accorgiamo, tutto spunta fuori con una naturalezza, con una rapidità che manco possiamo accorgerci. Sia chiaro, quando scrivo una determinata scena, so già cosa devo raccontare, ho anche le coordinate della scaletta, di ciò che dovrà svilupparsi e accadere, tenendo presente quanto scritto nelle pagine precedenti, ma con la musica in cuffia tutto diventa più agevole.

Questo vale per ciò che mi riguarda personalmente, poi ognuno ha i suoi metodi: ad esempio, trovandomi ora in pieno mood Zimmer, mi servo degli album delle original soundtrack per farmi guidare, pagina dopo pagina. Altri autori si creano apposite playlist con musiche e autori diversi. Insomma, è tutta una questione di scelte individuali, che cambiano a seconda delle rispettive sensibilità e inclinazioni, o dei vissuti ed esperienze maturate a titolo personale.

Nel mio caso, dunque, non intendo imporre un metodo unico per chiunque. Anzi, mi limito solo a raccontare quella che la mia angolazione in termini di esperienza. Poi ognuno può ricercare la propria strada, adattarla e costruirla. Ed è certo che se sceglie il silenzio, è perché ritiene di poter contare sulle condizioni ideali per scrivere.

Ma la musica, soprattutto per chi come me si trova a conquistare piccoli e medi spazi temporali per poter tirar fuori dallo zainetto il pc portatile e, soprattutto, per concedersi quei trenta o quaranta minuti utilissimi per scrivere, rappresenta pur sempre una fedele compagna, un’amica che ci accompagna, ci fa sentire decisamente più rigenerati e, nonostante le ore di stanchezza lavorativa, i problemi piccoli e grandi affrontati nelle ore precedenti, in pochi istanti ci si ritrova finalmente nel proprio microcosmo fatto di scritture, narrazioni, in un mondo che di giorno in giorno creiamo, rendendolo bello, coinvolgente, simpatico o incalzante, al punto da divertirci, emozionarci, anche commuoverci, e infine di ritrovarci soddisfatti di questo percorso trascorso insieme ai nostri personaggi.

Ecco perché, personalmente, non riesco mai a scrivere senza la musica in cuffia.

Anzi, senza le musiche che mi stimolano, mi danno la carica, mi ridanno una benzina di partenza (esiste poi un’altra benzina, da non sottovalutare, che è contraddistinta da una buona fase di lettura di un certo numero di romanzi, utile per apprezzare altre voci narrative, per capire le tecniche di narrazione, per scoprire alcune idee e spunti, utili da rielaborare e riutilizzare) per scrivere.

Proprio grazie ai ritmi, agli slanci di certe musiche, ci si ritrova pronti a tutto, a vedere una scena che si ricrea dal nulla, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e il tutto si dipana con una rapidità talmente impensabile, al punto da domandarci, a qualche giorno di distanza, nel rileggere il file, se siamo stati davvero noi a scrivere tutto quel materiale.

Questa percezione di sorpresa è naturale: non siamo mai uguali a quelli di prima, cambiamo ogni giorno, ed è naturale vedere in noi un’evoluzione nella scrittura, nella narrazione, in come vediamo il mondo che ci circonda. E per questo la crescita progressiva, derivante dalle letture e scritture, accompagnata da buone scelte musicali (utilissime in fase di stesura, per chi accetta di seguire questo tipo di percorso) si rivela quanto mai utile per andare avanti, e proseguire a piccoli e continui passi nella nostra crescita di narrazione di storie.