Vittorio Mussolini era orgoglioso dei suoi ragazzi. Neolaureati o studenti dal brillante avvenire, primi classificati nei Littoriali della cultura organizzati dal partito. Tutti accomunati da due stelle polari: la passione per i film italiani e una fede saldissima nel fascismo.
Bel gruppo, sangue fresco immesso nel corpo redazionale del quindicinale Cinema, la cui direzione il figlio del duce aveva assunto succedendo a Luciano De Feo.
Il cinema è l’arma più forte
Il regime guardava con particolare attenzione a un’industria capace di fatturare nel 1939 seicento milioni di lire, e proprio per sostenerla erano nati gli studi di Cinecittà e la Scuola Sperimentale di Cinematografia, gli uni e l’altra progettati come pietre angolari di una fabbrica del consenso che a guerra iniziata – “il cinema è l’arma più forte” proclamava Mussolini parafrasando Goebbels – doveva essere alimentata senza sosta. Saltava agli occhi l’immediatezza della comunicazione visiva e sonora, rispetto a libri e giornali zavorrati dalla fatica della lettura. Quindi era compito della rivista affidata a Vittorio, 20.000 copie vendute, dare la linea al pubblico più edotto.
Quei giovani cinefili si distinguevano per l’intransigenza degli editoriali e le stroncature riservate alle commedie romantiche, i famosi telefoni bianchi, operine melense, giudicate indegne di rappresentare il nuovo ordine.
Tuttavia erano loro le regine degli incassi. E si capisce: gli spettatori non avevano scelta, perdurando l’embargo di film statunitensi, inglesi e francesi, in risposta alle sanzioni applicate all’Italia dalle “plutodemocrazie occidentali”.
Ci voleva ben altro. Astenersi dai cedimenti alla morale borghese e raccontare, invece, gli eroismi dei nostri soldati sui campi di battaglia in Russia e Africa. Ritornare alle epopee firmate Blasetti e Forzano, la rivoluzione in camicia nera e la bonifica pontina, pane e lavoro strappati all’avarizia della terra. Era questo l’indirizzo culturale del regime che chiamava alla mobilitazione, ignorando il desiderio popolare di sovrapporre i sogni a una realtà drammatica.
Era sempre questo, mandato a memoria da Vittorio quando faceva colazione con babbo Benito a Villa Torlonia, l’indirizzo editoriale di Cinema. L’impostazione strategica, a dire il vero, il direttore la sorvegliava da remoto. Passava di rado dalla redazione di piazza della Pilotta, giusto due volte al mese per preparare il numero in uscita, poi un’allegra cena in trattoria dalle parti di Fontana di Trevi. Fine serata – la compagnia era tutta maschile – con visita alle ragazze del Grottino, la casa di tolleranza più alla moda di Roma. Offriva il giovane Mussolini, al quale tutto si poteva rimproverare tranne il braccino corto.
Lui pagava volentieri, erano così bravi i suoi ragazzi: Glauco Viazzi, Carlo Lizzani, Massimo Mida, Gianni Puccini, Antonio Pietrangeli. Guido Aristarco, Ugo Casiraghi, Giuseppe De Santis. Più un collaboratore saltuario: Pietro Ingrao. Una sera, a tavola, qualcuno lancia l’idea di un film che riassuma le idee della rivista, una specie di manifesto. Circola un soggetto da L’amante di Gramigna di Giovanni Verga, poco più di un ballon d’essai, ma il ministro Pavolini non si fida di quei giovanotti incontrollabili e lo blocca subito.
Dopo una settimana c’è già il piano B, vicenda d’amore contrastato, non leziosa né esilarante; il titolo scelto, Ossessione, riecheggia i romanzi lussuriosi di Pitigrilli, insomma suona bene. Dopo un mese la sceneggiatura è pronta. A tempo di record, visto il livello della raccomandazione, arrivano i finanziamenti dalle banche e il permesso della commissione di censura preventiva, composta da un gerarca, un generale, un professore di liceo, un prete e una casalinga, campioni del comune sentire.
Luchino Visconti
Manca l’esperienza pratica sul campo, chi possa stare dietro la macchina da presa, ma basta telefonare a un amico milanese, già aiutoregista di Jean Renoir in Francia e in attesa di poter finalmente debuttare. L’amico accetta subito, si chiama Luchino Visconti. Che coinvolge nell’avventura Mario Serandrei, bravo montatore, e Aldo Tonti, fotografo esperto. L’idea di partenza è datata autunno 1941, le riprese iniziano nella primavera del ‘42 e durano tre mesi.
Fosse stato più presente in redazione, al povero Vittorio qualche dubbio sarebbe venuto. Non era un’aquila, ma forse persino lui se ne sarebbe accorto: i suoi pupilli, propagandisti di una rigenerata rivoluzione, non erano fascisti per niente. Anzi. Erano tutti socialisti e comunisti in clandestinità, scelta pericolosa maturata sui banchi di scuola e nelle aule universitarie, davanti all’ingiustizia delle leggi razziali del ‘38 e alle sofferenze generate dalla guerra.
Avevano risposto alla parola d’ordine togliattiana dell’entrismo, infiltrarsi nelle istituzioni governative, nell’associazionismo giovanile, e primeggiare. Entrare per combattere da dentro e sabotare, far implodere. Ora erano pronti a remare contro. Perché Ossessione, cestinata la finta sceneggiatura presentata al ministero e ultimata una riscrittura a dir poco esplosiva, sarebbe stato un manifesto, sì, ma non dei tempi vecchi e morenti, bensì di una cinematografia nuova e di un’Italia stanca di umiliazioni, decisa a rialzare la testa.
Vediamo l’incipit folgorante di questo film, i primi cinque minuti.
I titoli di testa (che accreditano per la sceneggiatura e i dialoghi Visconti, Alicata, De Santis, Puccini e per l’aiutoregia Pietrangeli e De Santis) scorrono, dall’interno, sul parabrezza di un piccolo camion che percorre una strada bianca sull’argine del Po. Siamo, lo scopriamo più tardi, nei pressi di Codigoro, nel Ferrarese.
Questa prima inquadratura è in soggettiva, dal punto di vista di chi sta a fianco del guidatore. Il mezzo si ferma davanti a un edificio, che si arguisce trattarsi di un distributore di benzina, perché l’autista scende e chiama ad alta voce “Signor Bragana! Il rifornimento!”. Una voce maschile fuori campo, proveniente dalla strada, intona una romanza: “Di Provenza il mare e il sol” dall’ “Andante” della Traviata di Verdi. Un uomo grasso di mezza età si affaccia sulla porta dell’edificio e procede verso l’autista; la sua voce, nel lamentare di non aver ricevuto un buon servizio di assistenza al furgone, ne denota tutta la volgarità.
Il Bragana e l’autista si accorgono di un uomo che ha viaggiato sul cassone del camion, disteso sui sacchi di farina. Di lui scorgiamo la figura intera inquadrata di spalle, non il volto, coperto da un cappello. Scende lentamente a terra e la macchina da presa continua a riprenderlo di schiena. “Vagabondi! Bisogna stare attenti perché questi sono capaci di portarti via tutto il pollaio!” impreca il Bragana.
Che si allontana insieme all’autista, mentre l’uomo s’incammina in direzione del casolare, ripreso sempre da dietro; la mdp apre ora, con un movimento di gru, un’ampia panoramica verso l’alto grazie alla quale apprezziamo la grandezza dell’edificio, le cui scritte murali informano essere stato un tempo una dogana, e adesso una trattoria.
Il suono lamentoso di un violino lo accompagna. Il vagabondo sosta sulla soglia, si fruga in tasca, cerca qualche moneta. La mdp è all’interno del locale, arredato poveramente; un uomo strimpella al pianoforte riprendendo l’aria verdiana di prima, altri avventori giocano a morra. Il gruppo volge lo sguardo al nuovo arrivato, sembra fare ala al suo ingresso; poi la cinepresa lo segue in primo piano, dalla vita in giù: cammina senza fretta, come anchilosato dal viaggio, e intralciato dalla curiosità di due cani; è male in arnese, giacca e pantaloni stazzonati e infarinati, non indossa i calzini sotto le scarpe fangose.
Si ferma davanti al bancone, lo vediamo ancora di spalle, il cappello calcato sulla testa. Ad onta dell’aspetto penoso, ostenta un piglio sicuro, tamburella sul ripiano del mobile per richiamare l’attenzione.
Gli risponde dalla cucina un motivo popolare cantato da una voce femminile:
“Fiorin fiorello l’amore è bello vicino a te, mi fa cantare, mi fa sognare chissà perché…”.
L’uomo si affaccia sulla cucina, dietro una tenda si scorgono le gambe nude e pigramente dondolanti di una giovane donna, seduta sul tavolo. Primissimo piano sul volto della ragazza, che si solleva, atteggiato a sorpresa, non appena percepisce l’ingresso dello sconosciuto e ne ode la domanda posta fuori campo: “Si mangia qui?”. La sua bellezza bruna è sottolineata dalla luce di un faretto.
In controcampo il viso dell’uomo finalmente svelato, primissimo piano valorizzato anch’esso dalla fonte luminosa: abbronzato, età apparente sui trent’anni. L’espediente descrittivo (campo e controcampo, illuminazione che esalta e isola dal contesto) ottiene l’effetto di far entrare simultaneamente in scena i due protagonisti, conferisce loro un’aura mitica, e ne sancisce la reciproca, forte attrazione. Il dialogo che segue non fa altro che sottolineare questa impressione.
Lui giocherella con un paio di monete nella mano destra, si aggira disinvoltamente tra i fornelli, attinge da una pentola sul fuoco. Lei si mette sulla difensiva, pare imbarazzata e cerca di allontanare lo sconosciuto, che, in tutta evidenza, non le è indifferente. Lui: “Si mangia qui? Vi domando se si mangia qui, guardi che io pago” ed entra senza aspettare il permesso. Lei: “Va bene ma si mangia di là, aspetta in sala”. Lui: “Hai a che fare con quel pancione là fuori, tu?”. Lei: “È mio marito”. Lui, assaggiando qualcosa: “È fortunato ad avere una donna come te … che cucina così bene…”. Lei: “Non sprecarti, non sono una cuoca io, aspetta nella sala”. Lui si toglie la giacca e resta con una canottiera lurida addosso, il cappello è ancora calcato sulla testa: “È caldo qui, vicino ai fornelli”. Lei cambia espressione e gli si rivolge quasi trasognata: “Hai le spalle come un cavallo…”. Poi si scuote e avanza impugnando un fiasco di vino: “E ti fa impressione un po’ di caldo?”.
Ossessione si ispira molto alle atmosfere letterarie e cinematografiche francesi, assai meno al classico noir americano, e comunque ha la struttura di un giallo.
Gino si offre come meccanico, è bravo e guadagna la fiducia del padrone. L’amore divampato tra lui e Giovanna esige un prezzo terribile: la vita del Bragana, che i due amanti uccidono. Accecati dalla passione e sopraffatti dal senso di colpa cercano la fuga in auto, ma un incidente spezza la vita della donna, pochi minuti dopo aver annunciato al suo uomo di essere incinta. Gino finisce in prigione. Nemesi, soluzione drammatica e convenzionale, in sintonia con la morale corrente. Non potevano farla franca, il delitto non paga. Ma se il plot, il nòcciolo del frutto, semplice e lineare, rientra nella categoria del già visto, è la polpa, succosissima, a riservare sorprese, tra ambientazioni mai tentate prima, codici narrativi insoliti, un universo di segni ignoto all’esperienza del cinema italiano di quegli anni.
Ha scritto il critico Alessandro Bencivenni:
“Realizzato in un periodo di crisi del fascismo, Ossessione segna la rottura con i due generi tipici del cinema di regime: l’irrealtà patinata dei telefoni bianchi e la retorica trionfalistica del film storico. La descrizione dei rapporti familiari appare inedita e scandalosa, così come la stessa fisionomia dei personaggi e degli ambienti, che rifuggono da fondali lussuosi e sorrisi smaglianti”.
È Serandrei a definire questo film “neorealista”, coniando un termine fortunato e conferendo all’esordio di Visconti un diritto di primogenitura, ben due anni prima di Roma città aperta di Roberto Rossellini, considerato a ragione non solo il capolavoro di un genere, ma anche l’opera inaugurale. Possiamo dimostrare che non è così.
Gli elementi di rottura
Proviamo ad analizzare gli elementi di rottura, rispetto ai canoni tradizionali, presenti in Ossessione di Visconti.
1) Il soggetto è tratto da The Postman Always Rings Twice (Il postino suona sempre due volte), di James M. Cain. Questo libro, non accreditato nei titoli di testa, in Italia non esisteva. Il suo autore, in quanto nordamericano, insieme a Hemingway, Steinbeck, Faulkner, Dos Passos, era all’indice, inutile cercarlo nelle librerie. Ne circolavano copie clandestine in lingua originale, cui i redattori di Cinemaavevano accesso, e anche Cesare Pavese vi si era ispirato per il suo Paesi tuoi (1941). Ma ricavarne un film, trasferendo l’azione dalle pianure assolate del sud degli Stati Uniti durante la Grande Depressione del 1929 alla Bassa Padana dell’Italia fertile e imperiale, era un azzardo voluto, significava sfidare apertamente la politica estera del governo.
2) I personaggi. Dal libro al film, da Frank a Gino, da Cora a Giovanna. La protagonista doveva essere Anna Magnani, ma l’avanzato stato di gravidanza la estromette dal cast. Visconti sceglie due attori che non sono i soliti belloni, scipiti e un po’ asessuati abitatori delle farse e dei kolossal in costume, vedi l’inespressivo Roberto Villa e la cinguettante Assia Noris. I volti di Massimo Girotti e Clara Calamai sono sensuali, tradiscono storie pregresse. Tratti giusti per una vicenda tragica e carnale. E che dire dei loro corpi? La Calamai, pochi mesi prima, era apparsa a seno nudo in La cena delle beffe, due secondi sufficienti a sollevare uno scandalo. E poi quelle gambe: Giovanna, seduta sul tavolo di cucina quando incontra il futuro amante, non riesce proprio a tenerle serrate, come le monache insegnano a scuola. Gino mostra i bicipiti: paragonandolo a un cavallo la donna non assume esattamente il tono di chi frequenta ippodromi. La maglietta della salute che Girotti porta con indolenza e scarso senso dell’igiene diventerà un’icona assai rappresentata in seguito, passando da Raf Vallone a Vittorio Gassman, da Lamberto Maggiorani a Maurizio Arena. La chiameranno ‘canottiera neorealista’, a indicare una certa selvatichezza proletaria.
3) Giovanna è chiaramente malmaritata, e Bragana un uomo prepotente, sgradevole e troppo vecchio per lei. Ma nell’Italia fascista, basata su amor patrio, sentimento religioso e solidità della triade uomo-donna-figli (tanti figli), i giornali non danno notizie di mazzate domestiche e famiglie infelici a modo loro, d’altronde pochissimi hanno letto Anna Karenina. Certe cose succedono e segnano tante vite per sempre, ma l’ipocrisia dominante le derubrica a incidenti su cui sorvolare, e l’etica, al crocevia tra bene e male, applica categorie fin troppo comode. Quanto alla legge, una volta chiamata in causa, tutela solo una parte, indovinate quale. Se le scappatelle dell’uomo sposato vengono giudicate fisiologiche, gli scivoloni della donna sfuggita alla dovuta soggezione minacciano l’integrità della stirpe. Ciò legittima, in quanto mezzo correttivo, le botte alla fedifraga da parte del coniuge ingannato, e se queste non bastano, il Codice Rocco prevede il delitto d’onore, cancellato solo nel 1981. Il fuoco cova sotto la cenere. Ma il cinema minimizza, occulta. Il non detto, il non ostensibile, tutto resta confinato in un’area grigia. Il mito della famiglia perfetta da sussidiario delle scuole elementari non contempla l’ipotesi che questo mirabile equilibrio possa essere rovesciato, che un atto cruento e irreversibile venga adottato, d’impeto, come risoluzione delle controversie all’interno di una coppia. Gesto più volte mostrato, sotto specie artistica, sulle scene e nei romanzi dell’Ottocento, poi rimosso dai princìpi spirituali del Ventennio. Fino all’uxoricidio di Ossessione. Attraverso questa breccia, quasi in simultanea, passano Blasetti, uomo affine al potere per ideologia ma intellettualmente onesto (Quattro passi tra le nuvole, 1942) e Vittorio De Sica (I bambini ci guardano, 1943).
4) Gino è disoccupato, vagabondo come Frank nel libro di Cain, l’hobo che viaggia senza mèta sui treni merci, vedi le pagine di Faulkner e la musica folk di Pete Seeger e Woody Guthrie. Scelta di vita o stato di necessità, nella grande America ognuno può decidere il proprio destino. In Italia no. O meglio: il lavoro manca, braccianti e muratori vagano tra città e campagna alla ricerca di occupazione, ma il fenomeno non risulta dalle statistiche, non lo si può mostrare. La verità ufficiale è che il governo pensa a tutti, e tutti colloca al posto giusto, e guai a muoversi. Classi sociali pietrificate nel corporativismo, senza possibilità di ascesa sociale, se non per cooptazione matrimoniale, quando le commesse dei grandi magazzini e le segretarie di banca riescono a sposare direttori e presidenti. Nel cinema italiano degli anni trenta i protagonisti assoluti sono aristocrazia e borghesia, con i loro fastidi grassi. Le classi più disagiate, testimoni di povertà, disagio e mancanza di diritti, non ci sono. Cancellate, invisibili. Nel 1934 Ivo Perilli, in Ragazzo, racconta un percorso di adesione al regime ma commette l’imprudenza di filmare le miserie della periferia romana, tra baracche e mendicanti. La pellicola, bocciata dalla censura, viene fatta letteralmente a pezzi. Il popolo si affaccia per la prima volta sul grande schermo più tardi, a guerra finita, col neorealismo: contadini, operai, mondine, sartine, preti, artigiani, ferrovieri. Attori spesso improvvisati che recitano se stessi, fuori dai teatri di posa distrutti dai bombardamenti, lungo le vie dei quartieri poveri e gli stradoni bianchi che vanno da un paese a un altro, come quelli battuti da Gino. Dopo vent’anni di bugie, di manipolazioni, di travisamenti, si afferma la verità, con tutta la sua forza salvifica. Visconti e i ragazzi di Cinema hanno precorso i tempi.
5) Il film inizia sulle note della Traviata di Verdi. Bragana va a Ferrara per partecipare a un concorso lirico, dove un’improbabile coppia, nei ruoli di Gilda e del duca di Mantova del Rigoletto, si esibisce nell’aria “Ah, inseparabile d’Amore il Dio/ Stringeva, o vergine, il tuo fato e il mio”. Nessuno accenna i motivetti di Rabagliati o del Trio Lescano, onnipresenti negli altri lungometraggi; neanche Giovanna, che si cimenta in un brano del folklore nazionale (“Fiorin fiorello”) comunque non ascrivibile alla produzione di consumo, almeno fino agli anni cinquanta quando lo rilancerà Luciano Tajoli. La musica colta non è un vezzo di Visconti, che pure si nutre per tutta la vita dei capolavori operistici, e d’ora in poi li porterà sullo schermo, vedi Bellissima (L’elisir d’amore di Donizetti), Senso (Settima sinfonia di Bruckner, Il Trovatore di Verdi), Il Gattopardo (ancora Verdi), Morte a Venezia (Mahler, Beethoven), Gruppo di famiglia in un interno (Mozart), e per il palcoscenico firmerà regie memorabili. La musica colta per Luchino è un argomento politico. Sa che i poveri nel nostro Paese non vanno a teatro, istituzione borghese (e in Francia, invece, interclassista: la platea ai benestanti, i palchi ai nobili, la galleria ai lavoratori, les enfants du paradis). Però, sfidando l’handicap della scarsa alfabetizzazione, la gente semplice si tramanda memoria e pratica del belcanto grazie al dilettantismo meraviglioso delle filarmoniche. Perché, come scrisse Antonio Gramsci, il melodramma è tra le creazioni originali del genio italiano, l’espressione più alta della cultura nazionalpopolare, fatta propria da ognuno a prescindere dalla collocazione sociale, e amata in tutta la Penisola. Mai veramente unificata dalla politica e nemmeno dalla lingua, ma dalle sublimi sinfonie, sì. La cosa straordinaria è che il grande intellettuale elaborò il concetto in carcere, e fu possibile leggerlo solo nel 1947. Visconti, da genio qual era, lo aveva anticipato, innervando la sua prima regia con le passioni roventi e le note immortali. A questa intuizione Bernardo Bertolucci rese omaggio inventando l’ouverture di Novecento, il contadino gobbo che canta un’aria del Rigoletto.
6) Gino è senza fissa dimora, non ha nulla da perdere, ogni posto può essere quello buono, finché dura. Incontra un strano personaggio, lo Spagnolo. Il quale gli parla di viaggi in paesi lontani, della possibilità di espatriare, lasciare l’Italia dove il lavoro non c’è, e lo invita a andare con lui. Non esistono precedenti nella narrazione veicolata dai film di quegli anni. Eppure queste sono le stesse frasi pronunciate da generazioni intere di veneti, siciliani, pugliesi, napoletani, al momento di partire per la Francia, il Belgio, la Germania, l’America. Mussolini coniugò la politica imperialista in Africa con il trasferimento di braccia altrimenti inoperose. I migranti erano promossi a coloni, ma la fame che li spingeva a partire non sempre fu placata. E c’è un altro tabù infranto, pesantissimo per la cultura machista del periodo: lo ‘Spagnolo’ è presumibilmente omosessuale. Nessuno aveva mai osato tanto.
Prima del final cut, c’è tempo per una polemica tra Visconti e Mario Alicata, il quale in una lettera si dispiace di aver avuto un sentore di “sfatto” e di “sovraccarico”, e gli chiede che “tagli assolutamente il finale sulla strada, col corpo di lei sfigurato”. Una delle scene più belle, perché rimanda agli epiloghi forti, emotivi, del teatro d’opera. Ma al futuro dirigente del PCI sembra poco cònsona alla sobria estetica che dovrà corrispondere alla nuova “realtà italiana”.
L’uscita di Ossessione è possibile solo nel maggio ‘43, dopo qualche sforbiciata imposta dalla seconda commissione di censura che vaglia i prodotti finiti, ed evidentemente non coglie la portata dell’intera operazione. Ormai le maglie della repressione si stanno allargando. La guerra va malissimo, sulle città cadono bombe dal cielo, molte sale chiudono.
Pochi giorni di tenitura a Roma, a Milano la polizia entra nella cabina di un cinema del centro e sequestra le “pizze”: a denunciare non è stato il partito, ormai catatonico, ma l’arcivescovo, che tuona contro l’immonda tresca tra Gino e Giovanna e celebra una messa di riparazione. La seduta del Gran Consiglio del 25 luglio dà il rompete le righe: Mussolini arrestato, Vittorio scompare, Cinema interrompe le pubblicazioni (riaprirà nel 1948, per iniziativa di Guido Aristarco), i redattori entrano nella Resistenza. Conquistata la democrazia, ognuno seguirà la propria strada: si afferma una generazione di critici, giornalisti, insegnanti, cineasti, uomini politici.
Luchino Visconti viene arrestato a Roma nell’aprile 1944: nel giardino della residenza che ha appena affittato sull’Appia Antica, a seguito di una soffiata, la polizia della Repubblica Sociale ha scoperto armi e munizioni destinate ai partigiani.
Condotto alla pensione Jaccarino, sede operativa del reparto specializzato nella cattura di antifascisti, viene interrogato e torturato dal comandante ufficiale, il famigerato Pietro Koch (sarà processato come criminale di guerra e fucilato nel ‘45). Ma non parla. Intercede per lui un’attrice famosa, Maria Denis, innamorata del regista. Koch è un ammiratore della diva, sembra un atto indiscreto immaginare i termini della trattativa. Fatto sta che Luchino viene scarcerato.
Non ringrazierà mai la sua amica, non le proporrà una parte, la eviterà accuratamente in pubblico e in privato, per sempre. Maria ci resta malissimo, scambiando per enorme ingratitudine l’orgoglio ferito di un uomo salvato e, per questo, eternamente in debito verso i sommersi, i tanti compagni caduti per la libertà.
Fonti e bibliografia essenziale
Una mia conversazione con Pietro Ingrao, ai margini di un convegno sul cinema e l’impegno civile organizzato dalla Provincia di Siena, con la presenza di Ingrao stesso, Lino Micciché, Giuseppe De Santis, Nanni Loy, Ugo Pirro. Siena, maggio 1985.
Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze 1994.
Gianni Rondolino, Luchino Visconti, Utet, Torino 2006.
Stefania Parigi, Neorealismo. il nuovo cinema italiano del dopoguerra, Marsilio, Venezia 2014.
Sergio Micheli, Maria Denis, la vita dell’attrice e l‘incontro con Luchino Visconti, Nuova Immagine Editrice, Siena 2016.
Senese, storico del cinema con una tesi sulla cinematografia italiana ai tempi del fascismo. Scrittore e giornalista, è stato corrispondente de L’Unità e
direttore di varie testate. Si è guadagnato da vivere dirigendo uffici stampa. Negli anni ottanta ha curato mostre di maestri del fumetto come Jean Giraud, Milo Manara e Andrea Pazienza. Dagli anni novanta tiene corsi di divulgazione della cultura cinematografica. Con un gruppo di amici che condividono la sua passione si occupa della gestione di un cinema d’éssai.